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FOTO CORRETTA X ARTICOLO NARDA
Villa Dominica Balbinot , Quel luogo delle sabbie, autoprodotto.

Scrivere poesie e lanciarle nel magma della comunicazione, così disfatta, depredata, spesso vacua cacofonia, chiede coraggio e necessità di ascolto , chiede di sentire il senso delle aritmie del cuore. Ma le poesie di Dominica sono altro che una provocazione, o un esercizio di stile: dichiara il mondo totalizzato al nero, al lugubre, ad un impossibile passaggio verso un’oltranza che non è detto che esista.
Augusto Benemeglio (Liberolibro.it, 22/12/14) scrive che Villa Dominica Balbinot è una poetessa “che reca in sé le stimmate da primo romanticismo germanico, della tenebrosità, il senso dell’orrido e della funerea desolazione, ma anche quello decadente di Baudelaire, sempre sospeso tra la benedizione celeste e quella diabolica”. Sono parole di un’analisi attenta ma non esaustiva perché Dominica è donna di oggi e di questo mondo parla.
Lo sguardo di Dominica coglie l’immenso e la minutaglia, non fa scale di valore , ogni cosa è corrosa, è corrosa ab origine.

Non vuole dimostrare niente ma nel momento stesso in cui si rivela scrivente dà certificazione della sua esistenza e della crudezza delle favole.
Dominica non è interessata al dialogo e neppure all’ascolto : è poetessa visionaria e sibillina :
” Vi è una cognizione segreta e velenosa, / un insieme di annotazioni fredde, / il role du martyr, / su quei manuali della trattatistica quadragesimale,/ …..
Nè canto, né luce, né spiraglio, né uscio si affacciano un solo istante, anche in forme fantasmatiche e inconcrete ; in altro volumetto dichiara inconcreti i suoi furori perché la loro violenza si schianta contro un infinito che è aguzzo e conosce solo le strategie del dolore e della repulsione.
Non solo il mondo rappresentato marchia tutto da appestato, oscenamente titilla l’orrido; nessun gioco di intelligenza riuscirà ad aprire la gabbia, a sollevarne il peso ; rimane il censire l’avviluppo che dalla creazione è andato a maggiormente a farsi lasciando le creature solinghe e incattivite, così volute per saecula saeculorum.
Io credo che l’orrore rivelato nascondi un suo candore ovunque violato e tenuto fermamente nascosto , al riparo di ogni nuovo maleficio.
“ In quella positura lei poi si attrezzò / come in una sorta di affezione dolce: / e con lo strumentario…./ Si rifece dunque / alle asserzioni dei padri, / l’expositio lesse, / l’elucidario—“ ………. “ E iniziò lei medesima a putrefacere . / in quelle scave enunciazioni sul freddo – e lo viscoso, …” ; penso che sotto lo spesso strato di melma sia in somnio l’humus , il terriccio che definì le creature che però ebbero solo la melma per pascere.
E’ una poesia faticosa, questa di Dominica, faticosa perché affronta tematiche che stridono e torchiano il sentire e il vedere, irridono la riflessione e usano un linguaggio desueto, ricercato, attento che ogni parola appartenga allo stesso campo semantico , che niente tradisca un eventuale rovello.
E’ una poesia difficile ma anche alta , qua e là sibillina , eppure conserva sempre il suo incedere profetico nessuna res temendo quasi fossero i suoi versi i guanti di un’immane sfida.

NARDA FATTORI

POESIE TRATTE DA “QUEL LUOGO DELLE SABBIE” di VILLA DOMINICA BALBINOT ( autoprodotto)

LE PARLO’ COME UN AD ADOMBRATO ANIMALE

[ :.. Qualsiasi piramidale perfezione è bruciata
dal pulsare del sangue,
dall’allarme rosso della rovina…]

Sempre traboccando
tocca la sua suprema autolacerazione:
nella compilazione delle meditazioni
-su tutte quelle lettere ingiallite –
lei pallida per insufficienza
nell’indescrivibile grigio che tutto contiene
( al di qua dell’esperienza delle grandi fredde gioie,
di quelle fissazioni selvagge.)
Era ancora da fare,
l’esperimento della intera verità
nelle trionfanti gelide strutture architettoniche
– nei pertugi tutti:
Ma nulla era stato codificato nella sacra lingua,
il redentore non scrisse mai nulla,
di ritorno dalla carneficina
( Le parlò come a un animale adombrato,
nella fredda nudità delle pareti bianche:
a lei era parso di udire le voci basse dei cospiratori…)

OH, VOI CHE AVETE MORTI

Oh , voi
voi che avete morti
seppelliti sotto l’erba verde
– all’ingiù, verso lo sconvolto fondo
( dentro la terra,
dentro la terra,
dove è buio…)

Questo fu,
l’iniziale deliquio del sotterraneo uomo
( è la anima tutta che si rivolta)
nel profumo dei fiori esausti,
mentre si alzava il grido breve
di qualche notturno uccello.
Pensava alla stirpe dei condannati,
tra facciate di cemento recente e scabro
– e nella sfigurazione della febbre,
[ ma non c’era traccia di essudazione,
in quella suprema disperata contrazione]:
nei sudari di luce, si muore,
– e nel vano ardore-
in quel firmamento bluastro
di cui non si ammette la bellezza…

ERA FINITA LA BREVE FIORITURA

Era finita la breve fioritura,
e era il culmine del giorno
sopra il riflesso della montagna in fiamme:
il suo vero significato,
il momento della resa…

Qui era l’infiammato punto.
la acqua ferma e il viluppo di radici,
quell’ombra del cappio
(e l’aspirato ago,
i muti sarcolemmi nella gola).
Amante della distanza
nell’ultima tana si acceca,
pesa il tragico sogno
-nell’intrico delle deformità, in quell’icore.
Bramavano essi tutti di farsi inghiottire
da qualcosa più grande di loro,
per conoscere il cuore di questo spazio, di questo silenzio:
la reliquia sottile,
una tensione vitrea nel libro estremo,
tutta quella disnatura
( con la luna colore di sangue
che sorge nel deserto).

COME UNA SORTE DI AFFEZIONE DOLCE

In quella positura lei poi si attrezzò
come in una sorta di affezione dolce:
e con lo strumentario…

Si rifece dunque
alle asserzioni dei padri,
l’expositio lesse,
l’elucidario…
Sprofondò nelle disquisizioni sottili
( quelle dinanzi alle torturazioni anche)
E iniziò lei medesima a putrefacere,
in quelle scave enunciazioni sul freddo – e lo viscoso,
le parole dedicate tutte
a una qualche legge di Lynch stridula e maniaca…
-e pure nella scompensazione ultima
(Felicemente e fin sontuosamente
essiccherebbe,
davanti alla disadorna diretta morte,
l’embolica occlusione,
-e con quel suo nefando canto.)

IN QUESTA TERRA FIRMA

Dopo la rivelazione sinistra
la primavera fu precoce:
egli ci scrutò con i suoi occhi cupi…

In questa terra firma
si affiochiscono- le cogitazioni,
e solo rimane il perfetto silenzio;
quell’ implacabile
sguardo suo spento
non era più illuminato
che da una fiamma,
trasudava dalle membrane
un che di incorruttibile
( essi però non vedevano la sua intima perfezione ):
oh, oh
ma oh, i moti connettivi ,
la appuntita giuntura,
quel liquido freddo
vertebra per vertebra,
il frigido sangue che riconosce la consunzione,
le enfiagioni poi tutte
come fossero di un disassamento lo inizio.

LINDE INCORROTTE ( E VUOTE)

Linde incorrotte – e vuote
perfino certe sue
amplificazioni retoriche
( le giaculatorie orazioni)
parevano riverberare,
quali un luccichio marmoreo su nude pareti,
gli esoscheletri contorti
di tubature di ferro.
Dagli inferi nudi
dal cellario della carne
decretava- in delicto-
quel solo gelidume:
grandi insetti verdi
risucchiati da sabbie mobili di erba,
tutti quei cupi uccelli di velluto
e perfettamente immobili…

IN QUEL LUOGO DELLE SABBIE

In un desiderio eterno
-in un dolore eterno-
essi tutti scorticati
rosi erano a metà,
dalle rivelazioni,
della dispietata dottrina.
E guardavano,
guardavano in un modo continuo e intollerabile
( nell’atteggiamento della prosternazione)
quel luogo delle sabbie – e della paura:
il cielo era di altezza smisurata,
vi era una lebbra pallida
– e con una vaga idea di immolazione…

LA LASCIAI CON I SUOI SCARNI CRITERI

(La lasciai con i suoi scarni criteri
sotto il nero liscio concavo cielo:
ben presto sarebbero venuti,
a ispezionare le rovine della torre
(Era una faccenda di sangue)

(Oh,così, la notte )

Quando il sole tramontava piatto all’orizzonte
nel cerchio delle montagne nemiche
lei era la più morta,
la assoluta cosa,
acquistava una sua mollezza disperata
( con una pietà quasi impersonale).
E ovunque era,
lo stillicidio esilissimo
come sciami di uccelli rosa feriti
e una computazione fredda
– ne la innaturale quiete
ne gli immemorabili tempi-
Con una sorta di implacabilità
il cuore batteva come un cuore mostruoso
si trovava ancora nello stadio della nudità:
dall’erba gelida contro la notte
ogni ultimo germe,
quella lenta claustrale estinzione
(le facce straniere,
la muta attesa).

SOTTO GLI OSSESSIVI IRIDATI CIELI

“L’ho veduta giacere morta,
ed era tutta bianca:
il suo gelido fulgore era come una promessa
-di qualcosa di insostenibile,
– e nei marmorei camminamenti”

Ascoltavo gli echi delle grida
delle mutilazioni,
sotto ossessivi iridati cieli,
di una purpurea luce incidente
magnifica
-come accadeva a fine estate…
In una distesa innaturale
( quasi non di questo mondo)
scomparivano gli ultimi ostinati fiori selvatici,
in un incubo in bianco e nero,
di abissi attraversati da ponti di ferro,
– dall’aspro inumano pur*.
Qualcosa di terribile
( di un crudele manierato fascino)
era in quelle eroiche secche:
orrore, cieli posticci, vasto delirio
( e le notti più grandi
di quanto sia immaginabile,
nell’attimo del pallido grido primordiale)

*”pur”trascrizione termine greco che significa”fuoco”