Così potrebbero essere definite le sculture di Silvia Levenson.
Apparentemente ludiche seppure intrise di uno humor spietato, terribilmente evocative, sembrerebbero avere il potere di esorcizzare quei piccoli traumi infantili, quelle piccole ferite che, imparate e gelosamente custodite, mediano -per amore o per forza- l’approccio con i dettagli del quotidiano che può essere così incombente da diventare imminentemente pericoloso
Così, anche rassicuranti oggetti di uso domestico quali un tavolo, una sedia, un lettino, utensili da cucina, abiti e corredini per neonati, sono rappresentati in tutta la loro drammaticità che avverte, con una fortissima valenza didascalica, della fragilità a cui siamo sottoposti quotidianamente. Ciò nonostante, grazie all’utilizzo di materiali quali vetro, alluminio, legno; grazie alla fattura di stampo quasi fiabesco, ricreativo, la Levenson, che parrebbe aver guardato con attenzione ai modelli pedagogici teorizzati dalla Montessori per poi ribaltarli, sembra voglia invitarci a toccare quella quotidianità attraverso (o a discapito di, si potrebbe dire) quei pungenti e affilati oggetti per esorcizzarli tramite il tocco sano della consapevolezza.
Silvia Levenson porta avanti la sua personalissima ricerca sui temi dell’infanzia attraverso la rappresentazione dell’assenza reinterpretandoli in chiave onirica, sicuramente ironica, attingendo dalle iconografie di un’infanzia in fermoimmagine che, in posa insieme alle buone maniere imparate a menadito, si presta ubbidiente alla sua messa in scena.
E allora, ecco sfilare, in un’ immmaginaria passerella, gli abitini belli e ordinati delle sue vezzose bambine ( bambina cattiva 2000, bambina spinosa 2001) a cui -protettiva- prima sottrae le piccole vittime poi applica chiodini, filo spinato, punteruoli, quasi a voler costituire (o a denunciare) la corazza che le stesse sono costrette a portare (o a costruirsi) per difendersi e in ultimo donarle alla memoria collettiva, quasi fosse un’oblazione o un monito.