E’ il 1931 quando Luigi Pirandello inizia la stesura di quella che sarebbe stata la sua ultima opera: I giganti della montagna. Ed è il 10 dicembre del 1936 quando, ormai in agonia, suggerisce al figlio Stefano una linea guida per concludere il dramma che non ha fatto in tempo a finire. I giganti della montagna, uno dei tre testi teatrali, con Lazzaro e La nuova colonia, che costituiscono il ciclo del Teatro del mito, è il dramma della condizione dell’Arte, l’analisi onirica di una guerra combattuta fra la Ragione e la Poesia. Qui Pirandello abbandona il realismo dei suoi primi racconti, abdica alla poetica dell’Essere vs l’Apparire e si lascia dietro la scia di quel borghesismo dentro il quale si consuma l’esistenza di un’umanità spenta. Ne “I giganti” non troviamo tracce di quei personaggi che si dibattono per dirimere i contrasti fra “corde civili” e “corde pazze”, ma assistiamo alla rappresentazione di due modelli di vita: quello di coloro che hanno scelto di vivere nell’allucinazione del sogno e quello che Ilse si ostina a volere perpetuare a dispetto della realtà avversa.
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