Di giorno, con la luce, sembrava tutto più facile: c’era da lavorare, da correre, incontrare clienti, parlare con loro, convincerli, starli a sentire, quando magari ti rovesciavano addosso tonnellate di problemi personali, con la moglie, con l’amante, con i figli. E poi c’era la casa: sua figlia tredicenne, con tutti i problemi di quell’età, un momento felice, il momento dopo in lacrime, mai contenta, petulante. E sua moglie: chiusa, taciturna, perennemente incapace di sorridere, di giocare, sostanzialmente solo interessata a se stessa, a ottenere, in un modo o nell’altro, quello che voleva. Una normalissima situazione famigliare, uguale ad altre migliaia di situazioni famigliari, che lui doveva e voleva difendere. In realtà, subito dopo l’accaduto, si era lasciato andare a una sorta di inerzia, rimuginando nella testa pensieri: aveva passato due giorni in letto, dandosi malato, a lavorare di fantasia. Aveva però capito che quella strada lo avrebbe portato presto al manicomio e si era fatto forza. A poco a poco i ritmi a cui era abituato si erano rimpossessati di lui, e le giornate, bene o male, passavano. I pensieri si riaffacciavano alla sua mente proporzionalmente al venir meno della luce e con la notte diventavano tanto grandi da occupare tutto lo spazio che c’era. Pensava spesso che aveva ragione Gaber, in una vecchia canzone, quando diceva che i pensieri di notte diventavano più grandi e più cupi. Davvero. Lui lo sapeva bene. Non riusciva a dormire, quella notte come tante altre notti, perché pensava a Lella. Continua a leggere →
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