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Possiamo soltanto amare
il resto non conta, non
funziona,
al mattino appaiono
la tazza, il vecchio pino, le zolle umide, il fumo
dell’alito mentre apri l’auto
nel gelo. Potevano non apparire, non arrivare
più qui, alla riva degli occhi. E l’estate
c’era, c’è nella calda bruna memoria
dei rami tagliati,
i visi diventano ricordi
le voci gridate stracci silenziosi –
i denti conoscono il sapore
del niente, e l’oblio che ha portici
e portici infiniti.

Possiamo soltanto amare
strappandoci felicemente figli dalla carne
parlando d’amore continuamente
ubriachi, feriti, vili
ma con gli occhi lucenti come laser
di fiori splendidi
e il canarino nel palmo della mano.

Mormorare come dare baci nell’aria.

Il rametto profumato non si raddrizza
con i colpi della nostra ira, lo sguardo
di tuo figlio non perde il velo di tristezza
se glie lo togli mille volte
dal viso…

Possiamo soltanto amare
fino all’ultimo nascosto spasmo
che nessuno vede
e diviene quella specie di sorriso
che si ha nell’abbraccio finalmente
di morire come scendendo nell’acqua.

Le stelle a miriadi saranno testimoni, e i venti
passati una volta accanto
sulla gioia profonda delle ossa
diranno: era fatto di allegria, amava,
oppure non diranno niente e poi niente
per sempre.

Possiamo soltanto amare
il resto è il teatro amaro
dell’impotenza sotto il sole giaguaro.

Davide Rondoni
da «L’amore non è giusto»
CartaCanta Editore, 2013

Tutti i poeti dovrebbero assumersi la responsabilità di parlare d’amore, anzi, di ragionare d’amore, mettere a fuoco quello che spesso muove il primo verso. Lo fa Davide Rondoni con L’amore non è giusto appena uscito per le eleganti edizioni forlivesi CartaCanta. Non è un’antologia, non è neppure semplicemente un saggio… forse piuttosto una conversazione, personalissima, complice e rischiosa, costellata dei versi amati ma anche dei propri, come ogni responsabilità chiede di mettere in gioco se stessi. Una conversazione che ha il sapore dell’amicizia, perché non solo dà del tu al lettore, ma anche ai grandi autori citati, come se d’amore non si potesse parlare che così, avvicinando ogni cosa alla dimensione di ciò che si fa nostro. La cosa più bella di questo libro è il modo in cui il poeta affronta come in un viaggio le questioni fondamentali dell’amore, a partire dal fatto che l’amore non è solo un sentimento, ma un fatto, anzi come dice Rondoni un trasporto, lo stesso che muove “il sole e l’altre stelle”. Amore che è forte come la morte e che nella radice provenzale è morte senza la morte.

Rondoni si fa guidare da grandi sentinelle, a partire da Blaise Pascal, per rimettere in chiaro anche molti stereotipi del nostro tempo, primo fra tutti la bugiarda e svilita contrapposizione tra ragione e sentimento. Perché se l’amore non è solo un sentimento meno che mai è qualcosa di slegato dalla ragione, Pascal lo dice chiaro, l’amore non è il contrario della ragione, è anzi quello stato in cui i pensieri ci sono eccome, ma si spostano tutti nella stessa direzione. L’amore è anche conoscenza, il grande atto conoscitivo che non si esaurisce mai. Partire così dalla meraviglia del Cantico dei Cantici, passando attraverso i Fedeli d’amore e l’assoluto della loro lontananza, per arrivare alle lettere di Rilke e Lou Salomé. Parlare di sesso e amoruzzi attraverso lo sguardo di Eliot, inchiodare la gelosia con la ferocia di Anne Sexton che racconta la moglie del suo amante, e poi nel senso più profondo del perdono, capire che cos’è davvero l’ardore,  nei versi luminosi e commuoventi di Adelia Prado. Un libro da leggere come un pensiero che si fa finalmente chiaro, come una conferma. E scoprire tra queste pagine anche una soluzione all’annosa questione della differenza tra “ti voglio bene” e “ti amo”.

 Isabella Leardini

 

Autopresentazione di Davide Rondoni

Mi verrebbe spontaneo fare il nome di altri. Voglio dire una specie di elenco di coloro, e son tanti, a cui la mia vita è legata. Sarebbe forse meglio, più esatto.
Parlare della silenziosa vastità d’affetti di mio nonno Enea, provare a dire la semplice cura di Bruna sua moglie e mia gran madre, la solitudine di quell’altra, fiera, madre di mio padre che mi ospitò a Cervia a scrivere poesie, la forza buona e pazza di mia madre Giovanna, mia zia Marta, fulminata nel tempo a ventidue anni e fissa per sempre nel mio destino, il carisma paterno ed entusiasmante di don Giussani, lo stimolo alto, teso di Francesco Ricci, l’amicizia di mio fratello e di mia sorella, la maestria di Raimondi, le canzoni di Vasco Rossi, e ridire i nomi delle città che ho veduto. Degli amici dispersi ma non perduti. E parlare, se ne fossi capace e degno, di mia moglie, dei miei sorprendenti piccoli.
Ho iniziato a scrivere poesie a 8 anni. Non mi sono ancora fermato. Ero a Forlì, mia splendida città natale. Splendida per la gente che c’è (le signore buone e quelle cattive della latteria, i meccanici di bici mezzi matti, i matti interi sotto i portici, i signorotti impettiti, le ragazze) oltre che per alcune cose e scorci che i forestieri spesso non vedono o non possono vedere. Mi ricordo che ero ammalato a letto: gli orecchioni. Era inverno, venne il primo verso: “Ecco arriva l’inverno/ i bambini accendono il termo”. Grande.
Ora la mia casa è a Bologna, città bella e difficile, autoritaria come una cicciona non più brillante e non più molto tonica. Ma bella, comunque. Giro molto, anche lontano. Se è “molto lontano” prendo l’aereo. Ma faccio molti chilometri in automobile.
Un filologo o un critico di professione forse potrebbe tirare richiami intratestuali. Io ho continuato a tirare il fiato da non so dove, da quale pozza buia di aria gratis.
Quando avevo meno vent’anni, ho iniziato a fare con alcuni amici una rivista: clanDestino. E’ancora viva, non perché è ricca di soldi (c’è una miseria, come si dice dalle mie parti, che anche i sorci scappano via coi lacrimoni agli occhi) ma di idee e di talento da parte di tutti quelli che l’han fatta e la fanno: Lauretano, Gibellini, Guerra, Ulivi, Vespignani, Casadei…

Poi i tanti scrittori importanti che ci intervengono su. E grazie anche all’impronta del buon vecchio Giampaolo Piccari che ci fece partire.
Non ho mai concepito il lavoro poetico come “a parte” dall’impegno critico, sia in campo letterario che, più largamente, in campo sociale e politico. L’essere un cristiano cattolico, non mi ha mai messo in quell’imbarazzo verso l’arte in cui taluni vorrebbero. Come quelli che alla grande Flannery O’Connor, appunto, chiedevano come facesse lei, nel XX sec. ad essere cattolico e d artista. E lei rispondeva: proprio perché sono cattolica non posso che essere un’artista.
Io sono cattolico perché nulla è più affascinante, per la ragione e per il cuore, di questa inserzione del divino nell’umano, del mistero della Incarnazione. Tutto dell’umano ne viene così valorizzato, così preso in primo piano e in un destino di bene… Non ho grandi riflessioni sulla fede. Non esiste il cristianesimo, ha scritto qualcuno, ma solo uomini toccati da un avvenimento e da un incontro che opera nella vita un cambiamento di prospettiva e di affezione. Io sono stato coinvolto in questo popolo d’uomini. Non è un merito, né un lasciapassare per un inesistente paradiso in terra, né un antivirus: è una grazia, un dono.
Dunque, a vent’anni, cioè nel 1984, ancora scrivevo poesie e mi piacevano alcuni poeti: Luzi, ad esempio e Testori, e Caproni. Naturalmente Rimbaud.
Coi primi due sono entrato in un rapporto lungo e bello, (con Testori anche duro, e non poteva essere altrimenti). Il terzo mi scrisse una letterina dopo aver ricevuto il mio primo libretto (“La frontiera delle ginestre”) dicendo di essere come un sarto che tasta la stoffa e dice: è buona. E si soffermava sui testi che lo avevano colpito di più e su alcuni difetti. Allora continuai.
Di Testori e di Caproni mi colpiva il senso di estrema vibrazione della loro voce in accordo con le estremità della vita. Un altro grande poeta, Piero Bigongiari, io e alcuni altri giovani amici lo chiamammo a lungo “lo zio”.
Testori mi disse: traduci Rimabud, lì non ti puoi attaccare a nulla.
E allora bruciò definitivamente ogni vanagloria. E dopo il ragazzo profeta selvaggio, tradussi Baudelaire, il gigante. Con Testori e con alcuni suoi amici scopersi la tensione al teatro che c’è in ogni autentica scrittura poetica.
Dieci anni dopo, nel ’96, un editore mi chiese una versione poetica dei Salmi. Altro lavoro “assurdo”, prostrante ed esaltante. Fondamentale.
Di Luzi, ancora, mi colpisce la vivezza della meditazione, la germinazione del pensiero con la parola, la generosità gentile e silvestre con cui, caricandosi dei problemi che presenta un secolo di poesia in gran parte a lui “estranea” ma egemone, ha riaperto alla poesia non solo italiana una via non pregiudicata da una posizione esistenziale segnata da delusione rispetto alla realtà, da una dubitosità scettica o nichilista.
Di lui ho tanti ricordi. Come quelle susine dolcissime che un giorno d’estate offerse a me e ai miei piccoli quando lo andammo a trovare a Pienza. Quelle susine e quelle pale d’altare anonime, chiuse in piccole chiese sparse laggiù mi indicarono qualcosa di chiaro e meraviglioso sulla sua poesia. Aveva da poco finito di scrivere “Sotto specie umana”.
“Che fa l’aria…” chiede a un certo punto il Pastore errante di Leopardi. Me ne sono accorto veramente poco tempo fa. E ho pensato a quando mio figlioletto, Bartolomeo, un giorno mentre in auto salivamo su una strada delle Dolomiti mi chiese: “Cos’è quella, babbo?” “E’ una montagna, Barti.”. “E cosa fa la montagna?”. Io, lì per lì, dissi: “Cosa vuoi che faccia ? fa la montagna…”. Poi, quando di recente mi accorsi veramente di quel verso leopardiano, collegai: la domanda dei più piccoli, la loro ragione aperta sul reale, il loro senso naturale che tutto ci sta a fare qualcosa qui, che c’è, insomma, un’azione nel mondo, che tutto partecipa a un movimento, a un evento -ecco, è la stessa “scoperta” continua della grande poesia.
“Aria rubata” mi pare chiamasse la poesia Mandel’stam. Aveva in mente – e poi l’ebbe fin nel morire della carne- lo scandalo della oppressione. Ma aria rubata resta, la poesia, anche nelle situazioni apparentemente più libere. Perché la libertà è sempre in gioco, dico la libertà vera, che non è quella di fare quel che pare o piace, ma è quell’energia che ci fa aderire alla realtà e alla promessa di bene che c’è dentro.
Che libertà da guitti o da cani sarebbe, infatti, poter fare quel che si vuole in un serraglio in cui tutto è, in fondo, solo vanità e dissipazione nel niente?
Tutti i grandi poeti arrivano al dunque: il mondo è una farsa (atroce, o dolcificata per i più fortunati) o è un avventura di significato?
A questo dunque ci arrivano tutti coloro che non cessano d’essere uomini. I poeti danno voce a tutti i modi per arrivare al dunque: lo ricordano nei ricordi, lo ridono nel ridere, lo cantano nel canto, lo piangono nel piangere, lo tacciono nel tacere.
Non credo che per il fatto di aver scritto qualche poesia e aver pubblicato un po’ di libri io abbia una consapevolezza di cosa è il mondo, di cosa “fa”, maggiore di quella che aveva mia nonna Bruna che per tutta la vita ha fatto da mangiare a mio nonno Enea detto Nino.
(A proposito: forse in questo nome “doppio” del padre di mia madre e nella sua trasformazione c’è un segno del mio destino. Enea è nome altisonante, di gran viaggiatore tra terra mare e inferi, eroico, appassionato e pietoso. Ma mio nonno veniva in realtà chiamato da tutti Nino, romagnolesco o italianissimo diminutivo, bambinesco e familiare, da bar e da cortile).
Non credo che la poesia sia, in se stessa, una forma di conoscenza “altra” o più autorevole. La poesia, anzi, le buone poesie sono come quei tronchi cavi o quegli archi naturali di pietra che fanno suonare il vento, o le voci in modo insolito. E il vento e le voci sono la vita, le idee, le pene e le speranze di ognuno e di tutti. “Un grido unanime” diceva il vecchio grande Ungaretti, indicando come lui sapeva bene non una unanimità ideologica o stilistica, ma di “tensione”, di “grido”, appunto.
Sulla natura della poesia non si fanno grandi scoperte o acquisizioni. La poesia è una esperienza a cui si partecipa, ci si chiami Omero o Pinco Pallino che in una delle smisurate librerie di New York prende in mano un libro di poesie di E. Dickinson o di T.S. Eliot.
Il lettore completa l’opera, diceva Péguy richiamandone la grande responsabilità. Come dire che anche una poesia la si fa sempre in due: chi l’ha scritta, magari cinquemila anni fa, e chi la sta leggendo. Anche per questa speciale e infinita cooperazione, la poesia riguarda sempre il presente, e non accetta nessuna museificazione.
E’ un’esperienza del segreto del vivere: siamo dentro una creazione che ci fa.
I poeti sono quelli che ascoltano e dicono al modo in cui vien loro dettato dentro, diceva il padre Dante. Padre, sì, perché più di altri riconosceva d’esser figlio, di appartenere, analogicamente, alla propria lingua, ai propri scrittori, al proprio amore e al traditum della propria civiltà, al suo vivo fuoco.. “Vostro sono” dice alle Muse e, quindi, a quell’Amor che tutto move a cui esse, per lui, danno voce.
Poi, in tutti questi anni, gli scritti d’amore di Leopardi, tra Agostino, Lucrezio e la preghiera alla “cara beltà…”, i lavori su Péguy, il poeta dell’evento, dell’anti-sistema, su T.S. Eliot, Michelstaedter, Pascoli, Pasolini. E ora l’invenzione e l’opera del Centro di poesia contemporanea dell’Università di Bologna, un’antologia con Franco Loi sulla poesia italiana recente, impegnativa, tesa a valorizzare la tanta buona poesia italiana così misconosciuta nelle sedi critiche istituzionali, così mortificata dalla ripetizione pigra di pre-concetti.. Le letture, gli happening, le grandi letture di poesia nelle centrali elettriche in giro per l’Italia. Tanti libri ricevuti, comprati, letti -e manoscritti, e lettere, lettere, discussioni con Gibellini, Galaverni, Piccini, Mussapi, Loi, Doninelli, Bigongiari, con Valentino, con Francesca, con Stefano…
Ma, vedo, ricominciano i nomi, come un vento, un’aria, un dettare dentro.

 

Si è laureato in letteratura italiana all’Università di Bologna con Ezio Raimondi. Ha fondato e diretto il Centro di Poesia Contemporanea in seno all’Università felsinea. Ha scritto diverse raccolte di poesia, pubblicate in Italia, nei principali Paesi europei, nonché negli Stati Uniti. L’opera che lo ha posto all’attenzione della critica è Il bar del tempo (1999), seguita da alcuni libri che hanno ricevuto i più importanti premi di poesia, tra cui le opere: “Avrebbe amato chiunque” (Guanda, 2003), “Apocalisse amore” (Mondadori 2008).

Rondoni ha tenuto e tiene corsi di poesia e di letteratura negli atenei di Bologna, Milano Cattolica, Genova, allo Iulm, e negli Stati Uniti (all’Università di Yale e alla Columbia University).

Svolge un’intensa attività pubblicistica: ha fondato e dirige la rivista clanDestino, è opinionista di Avvenire, è stato critico letterario nel supplemento domenicale de Il Sole 24 Ore. Saltuariamente pubblica sul Corriere della Sera.

Dal 2006 conduce, sull’emittente televisiva TV2000, Antivirus, un programma di poesia. Ogni puntata è dedicata a un autore; Rondoni ne spiega la poetica, ne svela i maestri, ne legge pubblicamente alcuni versi.