Henry David Thoreau nacque nel 1817 a Concord, città del Massachusset: stato americano che le persone della mia età ricordano per una canzone dei Bee Gees, sorella della più famosa S.Francisco, inno alla pace contro la guerra nel Vietnam.
L’accostamento non è casuale: Thoreau, allievo del filosofo trascendentalista e teologo Ralph Waldo Emerson, autore del saggio “Nature”, volle non solo aderire teoricamente alle idee ecologiste e pacifiste del suo maestro, propagarle e svilupparle con scritti e conferenze, ma anche metterle in pratica. Il congenito pragmatismo americano divenne in lui voglia di azione, irrequietudine mentale e fisica portate alle massime conseguenze. Così, per opporsi alla guerra degli Stati Uniti contro il Messico, inventò la “disobbedienza civile”, e finì per breve tempo in prigione per essersi rifiutato di pagare le tasse.
Nel 1845, costruì con le sue mani una capanna di legno in una località isolata presso il lago Walden, e lì rimase per ben due anni in isolamento totale, per sperimentare le importanti evoluzioni psico-fisiche cui porta il contatto con la natura selvaggia, e poter poi dimostrare all’umanità la sferzata di energia e idealismo che ne conseguono. A questo scopo, scrisse “Walden, ovvero la vita nei boschi”, che pubblicò con grande successo nel 1854.
Ma non basta: vivere in mezzo agli alberi e alle paludi va bene, ma bisogna, anche e soprattutto, camminare. Ogni giorno, dalla sua capanna nei boschi, Thoreau si dirigeva nel folto camminando ogni volta in una direzione diversa per almeno quattro ore, e riteneva una giornata persa quella in cui non l’avesse fatto. Da questa sua esperienza nacque una serie di conferenze e poi un libro, pubblicato poco prima di morire, nel 1862, “Walking, or the Wild”; una traduzione in italiano, attuata da Maria Antonietta Prina, è stata recentemente proposta a cura di Massimo Jevolella nella collana “Saggezze”, nell’ambito degli Oscar Mondadori.
Attenzione, però: nella teoria e nella pratica di Thoreau, camminare non significa mettere passivamente un passo dietro l’altro. Non è neppure una semplice pratica salutistica, sebbene siano da prendere in considerazione le sue benefiche conseguenze sul corpo e sul’inquietudine nervosa.
Il vero “camminatore” deve sapersi staccare completamente dai suoi banali pensieri quotidiani; quindi, attua dentro di sè una sorta di tabula rasa che gli permettere di entrare in sintonia con le piante, i minerali, gli animali intorno a lui, con la natura tutta nel suo essere incontaminata e selvaggia, in grado quindi di collegare l’individuo con la parte vera di se stesso.
“Nel corso della mia vita ho incontrato non più di una o due persone che comprendessero l’arte del Camminare, ossia di fare passeggiate, che avessero il genio, per così dire, del vagabondare, termine splendidamente tratto da “genti oziose che nel Medioevo percorrevano il paese chiedendo l’elemosina con il pretesto di recarsi à la Sainte Terre”, sin quando i bambini cominciarono a gridare: “Ecco là un Sainte Terre!”, un Vagabondo, un Terra Santa. …Perché ogni vagabondaggio è una sorta di crociata, predicata dal San Pietro l’Eremita che è in noi, per indurci a uscire e riconquistare la Terra Santa dalle mani degli infedeli.”(1)
Le parole di Thoreau si fanno ispirate, quasi profetiche: camminatori si nasce, non si diventa; ci vuole un genio particolare per intendere che cosa sia questa attività in apparenza banale, ma che comporta profonde trasformazioni interiori se compiuta con lo spirito giusto. Anche un viaggio relativamente breve diviene un cammino decisivo per l’uomo che lo fa in perfetta consapevolezza, in modo simile alla meditazione attuata passeggiando dei monaci buddisti.
“È vero, siamo dei crociati miserabili, e lo sono anche quei camminatori che, ai nostri giorni, non affrontano imprese tenaci e di lunga durata. Le nostre spedizioni non sono altro che gite, e ci ritroviamo, la sera, accanto al vecchio focolare da cui siamo partiti. Per metà del cammino non facciamo che ritornare sui nostri passi. Dovremmo avanzare, anche sul percorso più breve, con imperituro spirito d’avventura, come se non dovessimo mai far ritorno, preparati a rimandare, come reliquie, i nostri cuori imbalsamati nei loro desolati regni. Se sei pronto a lasciare il padre e la madre, e il fratello e la sorella, e la moglie e il figlio e gli amici, e a non rivederli mai più; se hai pagato i tuoi debiti, e fatto testamento; se hai sistemato i tuoi affari, e se sei un uomo libero, allora sei pronto a metterti in cammino.” (2)
Parole estreme, queste: derivano da quel vangelo tutt’altro che edulcorato, che imponeva ai convertiti di tagliare i ponti con il mondo, rifiutando ogni compromesso in nome dell’unico, vero amore per Cristo. Parole come spade, linfa ardente per i martiri, non discorsi atti a giustificare troppo tiepidi convertiti. Ma la religione di Thoreau, con tutti i suoi influssi linguistici di diretta ascendenza biblica, è la religione dell’uomo in quanto essere razionale in profonda comunione con la natura; inoltre, l’umanità deve vivere non staticamente bensì in perpetuo progresso, e la fase iniziale di questa evoluzione si può attuare solo con un movimento che coinvolga totalmente gli individui. Quindi, come hanno fatto gli antichi Ebrei, bisogna mettersi in cammino.
Naturalmente, camminare in un parco artificiale, in un orto o in un giardino, è qualcosa che Thoreau non concepisce neppure; bisogna avere intorno a sè alberi non piantati dall’uomo, e la strada che si fa non può essere una strada che conduce ad una località precisa. Le strade costruite per trasportare merci e condurre esseri umani in mezzo ai propri simili, le strade del profitto e del commercio, non sono adeguate alle sue esigenze di purificazione; solo alcune strade deserte e abbandonate, che si perdono nelle foreste e non adempiono più alla loro funzione originaria, non guastano il fascino intatto della natura e possono essere percorse con profitto.
“La vita è stato selvaggio. Quel che è più vivo è più selvaggio, e quel che non è ancora soggetto all’uomo lo rinvigorisce. È come se colui che si è spinto avanti incessantemente, senza mai cercare riposo dalle proprie fatiche, crescendo saldo e chiedendo molto, si fosse trovato sempre in paesi sconosciuti, in luoghi selvaggi, circondato dal materiale grezzo della vita. Come se si fosse inerpicato sui rami degli alberi nella foresta primitiva.” (3)
Da buon americano, Thoreau si entusiasma per le bellezze della sua terra, arrivando a dire che perfino la Luna è più grande che in Europa; in questo volumetto umorale ed estroso, accanto alle osservazioni personali, alle sue esperienze ed alle esortazioni palpitanti verso il prossimo, che si ostina a vivere chiuso fra quattro mura, con le gambe accavallate, lo scrittore traccia una singolare storia della civiltà, che, a suo vedere, nei millenni e nei secoli si è propagata da oriente ad occidente, per giungere lì dove lui vive, e dove cammina volgendosi sempre a ovest, quasi attratto da un’irresistibile calamita. Il progresso dell’umanità, il suo futuro, non tecnologico ma morale ed artistico, nasceranno nell’ovest dell’America: ci sarà una nuova mitologia, forte, viva e libera dagli schemi della civiltà come, secondo il suo sentire, l’Iliade, l’Amleto, le Scritture, gli antichi miti greci.
“Camminare” si chiude con la visione di un tramonto favoloso, che illumina con una luce fulgida e purissima una terra selvaggiamente bella e serena, dove non è visibile traccia di esseri umani civilizzati:
“Così vagabondiamo verso la Terra Santa, finchè un giorno il sole splenderà più luminoso di quanto non abbia mai fatto, e illuminerà le nostre menti e i nostri cuori, e rischiarerà l’intera nostra vita con una grande luce che ci ridesterà, calda, serena e dorata come un raggio autunnale sulla riva di un fiume”. (4)
Le metafore bibliche sono, come sempre in questo autore, evidenti (la luce, il sole, il fiume), e lo distanziano in parte dalla nostra sensibilità di europei del ventunesimo secolo; allo stesso modo, leggendolo avvertiamo l’influsso del “buon selvaggio”, tanto caro al vecchio Rousseau. Eppure, non possiamo disconoscere a Thoreau un’intuizione che, partendo da quella reazione alla Rivoluzione industriale, così diffusa in Inghilterra e non solo, arriva fino ad alcuni aspetti dell’ecologismo contemporaneo.
Egli esorta gli uomini del suo tempo a bruciare steccati, per poter liberamente camminare nella terra di Dio che è di tutti, ma non appartiene a nessuno; li chiama a gioire delle cose vere ed incontaminate, e così facendo prepara la strada ad un nuovo sentire la natura, a un desiderio di genuinità, oggi diffusissimo e che periodicamente si è rinnovato, aumentando fino a diffondersi a livello mondiale.
Difficile dimenticare, poi, che Thoreau è stato l’antesignano per alcune modalità di protesta in seguito largamente diffuse, come soprattutto la disobbedienza civile; il mio pensiero corre anche, forse per semplice analogia, ad alcune modalità nelle manifestazioni, attuate con cartelli e passeggiate circolari, tipiche degli Stati Uniti.
Prima di lui, per millenni gli uomini avevano camminato, nelle loro peregrinazioni preistoriche e in grandiosi esodi storici. Alcuni di questi si verificano ancora oggi, purtroppo.
I Peripatetici e Rousseau meditavano camminando; un contemporaneo di Thoreau, Søren Kierkegaard, non riusciva a pensare creativamente se non durante le sue passeggiate a piedi. Dopo Thoreau, “camminare” è stata la passione di alcuni grandi scrittori, tra i quali Stevenson, Rimbaud, Hesse, Kerouac e Chatwin; fra gli italiani, Tiziano Terzani, Enrico Brizzi e Mauro Corona.
Del resto, il nostro sommo poeta Dante Alighieri aveva iniziato la “Divina Commedia” con un endecasillabo dal pregnante significato simbolico: “Nel mezzo del cammin di nostra vita”, e la quasi totalità della sua opera si svolge con lo scrittore-protagonista che percorre i tre mondi dell’aldilà “camminando” accanto alle sue guide.
(1) H.D. Thoreau, Camminare, Milano, Arnoldo Mondadori, 2009, pp. 17-18
(2) Thoreau, Camminare, p.18
(3)Thoreau, Camminare, p.39
(4)Thoreau, Camminare, p.60
Non tutti hanno la fortuna, coi ritmi e i tempi del giorno d’oggi, di poter metter in pratica, anche in minima parte la filosofia del camminare di Thoreau.
Non “passeggiata” ma scoperta…questo credo si possa fare anche quotidianamente e in ogni luogo.
Bentornata anche a te, Marina.
Sara
Molto interessante e molto suggerente. Grazie per questo articolo.
Saluti cordiali da Barcellona.
grazie, Sara, bentornata anche a te! vorrei sottolineare che, nei secoli, la filosofia del “pensare camminando”, a partire dai peripatetici, è stata qualcosa di molto serio, ben al di là dei superficiali dettami salutistici contemporanei; suggerisco anche un volume, parzialmente leggibile anche in rete, di un ascrittrice americana, ecco il link:
http://tecalibri.altervista.org/S/SOLNIT-R_camminare.htm
Infine ringrazio per il suo intervento un ” viajero vocacional”, autore di un ricchissimo blog, che scrive da Barcellona:-)
saluti
marina
ho combattuto contro i mulini a vento, stamattina, per lasciare un commento (il pc …).
si, uno dei primi nomi che mi è venuto in mente leggendo il tuo articolo è proprio quello di Chatwin. Ma un altro camminare, in verticale, un’altra sfida e , contemporanemente, comunione strettissima con la natura, è quella dei grandi scalatori. L’altro ieri ho ascoltato Messner che raccontava le sue esperienze con la montagna. Indubbiamente camminare, che dovrebbe essere un’esperienza quotidiana e comune a tutti, ci fa star meglio fisicamente e psicologicamente, mette in moto quella macchina straordinaria che è il corpo umano e ci porta lontano, perfino oltre i nostri passi tangibili.
A proposito del camminare, ecco il resoconto di una bella passeggiata. Un abbraccio a Marina
Gisella
La luna? Ha il sapore di vaniglia
Si può sentire il sapore della luna? L’odore di un colore o il canto di un fiore? E’ sufficiente guardare la Natura con occhi nuovi, lasciare che essa dialoghi con il nostro corpo e il nostro cuore.
di Paola Cerana
Una passeggiata attraverso i boschi, in una malinconica giornata autunnale, può rivelarsi un’inattesa esperienza sensoriale, capace di accendere scintille di pensieri ed emozioni. Non occorre andare troppo lontano da casa, scalare montagne o solcare oceani per emozionarsi, e nemmeno c’è bisogno che accada qualcosa di eccezionale per stupirci. E’ sufficiente guardare la Natura con occhi nuovi, lasciare che essa dialoghi con il nostro corpo e il nostro cuore, per mettere in moto una giostra di sensazioni tali da farci sentire in comunione con l’Universo. In questo modo, anche il panorama più quotidiano e disponibile può trasformarsi in un teatro animato di colori, suoni, odori e sapori, che si mescolano tra loro in un modo nuovo e sorprendente.
Poche settimane fa, camminando lungo un sentiero che costeggia un torrente, non lontano da dove vivo, ho vissuto anch’io questa magia. Ho serpeggiato tra cespugli e fronde rosseggianti, seguendo il corso pigro dell’acqua fino al lago, plumbeo e immobile per l’assenza quasi innaturale del vento. A volte, quando si cammina, si dimentica che esiste uno spazio immenso anche sopra la nostra testa ma basta alzare gli occhi al cielo per scoprirlo e rimanerne incantati. Infatti, dall’alto, attraverso le cime degli alberi, filtrava un filo di luce, sottile ma tagliente come una lama, che animava le tenui sfumature di verde sulle foglie, non ancora del tutto divorate dalle audaci pennellate gialle e rosse dell’autunno.
E’ stato proprio allora che, in quello spumeggiare acceso di colori, ho sentito improvvisamente un sapore ben preciso, come se quei colori io li stessi mangiando! Tutt’a un tratto, ho percepito in bocca il gusto esotico del mango maturo, con la sua polpa densa e fruttata, che si scioglieva lentamente in succo fino al suo cuore.
Inebriata da quel curioso amalgama di sensazioni, ho proseguito emozionata a caccia di altre tracce che solleticassero i miei sensi, come un cane che fiuta il passaggio di un’allettante preda. Mi son sentita in balìa di un’eccitazione sconosciuta, tanto da chiedermi se i colori potessero avere anche un odore oltre ad un sapore. Ed è stato proprio il mio naso a darmi la risposta, poco più avanti, quando mi sono ritrovata come immersa in quello splendido quadro di Rousseau intitolato “Il sogno”. Una cascata di verde, a capofitto sul torrente, ha aggredito il mio olfatto di un non so che d’acre e pungente, che non ho saputo ricondurre a un cibo buono e goloso. Era semplicemente odore di verde, di foglie e di muschio. E l’acqua, dove le fronde s’inchinavano quasi ad abbeverarsi, accentuava prepotentemente quell’asprigno solletico dentro le narici.
Sempre più estasiata, sazia di mango ed ebbra di verde, ho raggiunto infine il lago, mentre l’ultimo raggio di sole eclissava dietro le colline. Lì la temperatura era sensibilmente più alta rispetto al bosco e un flebile venticello faceva suonare le canne sinuose sull’acqua, come fossero vibranti corde d’arpa.
Mancava proprio il sonoro in quell’inatteso concerto dei sensi. Ma, tutt’a un tratto, ho avvertito una dissonanza, come quelle improvvisazioni ritmiche della musica jazz, che ti scuotono e ti sorprendono. E ancora una volta è stato il mio naso a parlarmi. Non ho dovuto sforzare troppo la fantasia per distinguere un odore che zaffava prepotente l’aria, caricandola di amaro, di terra, di marrone e di … Difatti, lo scorcio che si è aperto ai miei occhi poco dopo confortava gli inequivocabili messaggi olfattivi.
Un bellissimo cavallo bianco, incurante di me e del mondo intero, beatamente rapito dal suo instancabile brucare, aggiungeva vita e movimento al teatro naturale. E aggiungeva anche l’odore forte di stalla, di fieno, di brutale animalità, che completava il quadro rendendolo più reale. Che animale sensuale! Forse stava riposando, dopo una corsa selvaggia in libertà. Osservando quella creatura attraverso lo zoom della macchina fotografica, mi pareva di poter allungare un braccio e di riuscire a toccarla. Ho sentito, sotto le mani, il pelo ruvido, compatto e umido di sudore, la criniera ispida, folta e spettinata, nonostante il mantello bianco desse invece un’illusione di morbidezza, e ho sentito scorrere il flusso denso del sangue, il battito del cuore placarsi dopo la corsa, attraverso i muscoli caldi del collo, ancora tesi e pulsanti.
In pochi scatti ho rubato al cavallo tutte queste impressioni, assorbendole e mescolandole con l’incredibile impasto sensoriale già presente in me.
Rapita da tutti quegli incantamenti non mi ero quasi accorta che la sera era ormai inoltrata e che era arrivato il momento di tornare casa. Incamminandomi, mi sentivo leggera e in un certo senso eccitata mentre, nella mia testa, il pensiero logico cercava di farsi strada tra i residui delle emozioni provate fino a quel momento. La cosa mi piaceva, mi divertiva alimentare quella specie di conversazione interiore tra ragione e sentimento. Era come se il mio cammino non fosse più solitario ma che, all’improvviso e per magia, un grande scienziato della mente e un romantico poeta avessero deciso di accompagnarmi a casa per spiegarmi, ciascuno a suo modo, ciò che mi era successo quel pomeriggio. Ho accettato il gioco. In fondo dovevo pur camminare per almeno un quarto d’ora prima di rincasare e cosa di meglio che farlo in compagnia? Così, ho ascoltato dentro di me le parole dell’uomo di scienza che, con tono di ironica benevolenza, mi diceva:
“Sai bene, che quello che hai provato non è una metafora poetica e non ha semplicemente a che fare con le virtù artistiche di un’anima particolarmente sensibile. Né, tantomeno, con visioni, allucinazioni o distorsioni della mente. In realtà, mia cara, si tratta di un fenomeno che la neuroscienza conosce benissimo e gli ha dato anche un nome: SINESTESIA ovvero “PERCEZIONE SIMULTANEA”. Naturalmente ne ha spiegato anche i meccanismi, dimostrando che, a volte, i segnali provenienti dall’esterno – colori, odori, suoni, sapori e sensazioni tattili – vengono percepiti da regioni del cervello che, normalmente, non sono preposte a quella funzione.”
” E allora che succede?” gli ho chiesto.
“In poche e semplici parole, succede che gli stimoli si avventurano per le vie neuronali attivando simultaneamente più regioni cerebrali, disorientando così i nostri schemi sensoriali e prendendosi un po’ gioco delle nostre percezioni. In questo modo, può succedere che un odore venga udito, un colore possa essere gustato, o un suono alteri la temperatura percepita dal nostro corpo, facendoci sudare o rabbrividire. Mi segui?”
“Certo che ti seguo, non sono mica stupida.” ho risposto piccata.
“Bene. Non voglio prenderti altro tempo visto che stai per arrivare a casa, ma voglio aggiungerti che la faccenda è molto complessa e affascinante e ha altri interessanti risvolti. Alcune persone, ad esempio, associano ad una precisa nota musicale un colore: il do è rosso, mentre il fa diesis è blu. Pensa, questo può rivelarsi un utile meccanismo di memorizzazione di complessi spartiti musicali, non trovi? Per altri individui sono i numeri o i grafemi ad assumere un colore. Altre persone ancora attribuiscono ai giorni della settimana e ai mesi dell’anno, sapori o colori precisi, senza sapere perché. Il lunedì può assumere l’aroma del caffè, mentre Agosto potrebbe essere una tavolozza di azzurro e …”
“Va bene, basta, basta … ho capito”. Ho detto a quel punto, conquistata dal suo sapere ma anche un po’ delusa.
Non so perché ma non mi piaceva sentirmi sinestetica. Preferivo immaginarmi curiosa e ingorda della Natura, in tutte le sue manifestazioni, meravigliose e tragiche che fossero e mi piaceva pensare che l’Autunno fosse davvero giallo-rosso, col sapore di mango e odoroso di verde pungente!
Mi sono rivolta speranzosa verso il poeta. L’ho osservato di sottecchi: era alto, magro, con una corta ma incolta barba bianca e un sorriso dolce e svagato come, non so perché, ho sempre immaginato tutti i poeti del mondo. Il suo sguardo era rivolto verso il cielo, in direzione di una splendente luna piena, con un’espressione che mi sembrava la più felice del mondo. Quasi timorosa di disturbarlo, gli ho chiesto:
“Scusa, poeta, anche tu pensi che le sensazioni che ho provato sono state solo un’esaltazione dei miei neuroni?”
Il poeta, non ha distolto lo sguardo dalla luna. Ha sospirato e, con un sorriso ancora più intenso, mi ha risposto:
“Lo sai, bambina, che la Luna profuma di borotalco e ha il sapore di vaniglia?”
Purtroppo, proprio in quel momento, ero arrivata di fronte alla porta di casa. Ma, prima che il mio fantastico sogno sparisse, ho abbracciato il mio poeta e, con un sorriso grato, gli ho sussurrato: … “Sì, poeta, lo sapevo!”
Post scriptum: a chi volesse approfondire le proprie conoscenze sul fenomeno della sinestesia, consiglio di leggere i libri di Vilayanur Ramachandran, neuroscienziato indiano all’avanguardia negli studi di psicofisica, nonché piacevolissimo scrittore. E’ lui lo scienziato che mi ha accompagnato durante la mia fantastica passeggiata. Chi, invece, volesse conoscere il nome del mio poeta, bhé, mi dispiace ma questo è un segreto che terrò gelosamente custodito in me!
di Paola Cerana
09 Gennaio 2010 Teatro Naturale n. 1 Anno 7
quindi, haivinto la tua battaglia con il computer, Blumy:-)
mi hai testimoniato, altre volte, l’importanza psicofisica del camminare…sul camminare in verticale, anche qui esiste una letteratura affascinante, qui in Italia accanto a Messner c’è il nostro Mauro Corona, ci sono interi festival dedicati alla montagna.
In definitiva è sempre l’essere umano che sfida i propri limiti per meglio conoscere se stesso: non si tratta di sfidare la natura vista come una nemica, ma di immegersi nella natura per andare “oltre”; per usare una tua bella espressione, “perfino oltre i nostri passi tangibili”.
marina
Da “Fiducia in stessi”
(di Ralph Waldo Emerson)
Credere nel proprio pensiero, credere che ciò che è vero per voi, personalmente per voi, sia anche vero per tutti gli uomini, ecco, è questo il genio. Date voce alla convinzione latente in voi, ed essa prenderà significato universale; giacché ciò che è interno diventerà esterno, a tempo debito, e il primo nostro pensiero ci sarà restituito dalle trombe del Giudizio Finale. Familiare com’è una tale voce a ciascuno di noi, il merito maggiore che noi attribuiamo a Mosè, a Platone e a Milton è che essi non tennero in nessun conto libri e tradizioni, ed espressero non ciò che gli altri uomini pensavano, ma ciò che essi pensavano. Ognuno dovrebbe imparare a scoprire e a tener d’occhio quel barlume di luce che gli guizza dentro la mente più che lo scintillio del firmamento dei bardi e dei sapienti. E invece ognuno dismette, senza dargli importanza, il suo pensiero, proprio perché è il suo. E intanto, in ogni opera di genio riconosciamo i nostri propri pensieri rigettati; ritornano a noi ammantati di una maestà che altri hanno saputo dar loro. Grandi opere d’arte non ci offrono una lezione che sia per noi
più significativa. Esse ci insegnano ad affidarci alle nostre impressioni genuine con serena inflessibilità soprattutto allorché l’intero clamore di voci è dalla parte opposta. Anzi, potrebbe essere un estraneo, domani, a dirci precisamente, con magistrale buon senso, quello che noi abbiamo nel frattempo pensato e avvertito, e noi saremo costretti, con vergogna, a ricevere da un altro quella che era la nostra propria opinione.
– Da sempre innamorati della cultura trascendentale americana di Emerson e del gruppo di Concord, abbiamo letto con estremo piacere questa recensione.
Felici che ogni tanto questa voce, in Italia assai censurata (e ciò con grave danno), ogni tanto trovi espressione. Ultimamente… sempre più
Un saluto.
Mi è piaciuta questa meditata riflessione proposta da Marina in maniera accattivante e seria sul camminare pensando: in verticale sui precipizi di vita e di norma fino ad arrivare a un’immersione totale, panica (nella natura, in se stessi) e, in orizzontale, a favorire ogni attraversamento di sole e di buio, a costeggiare “verità” viste in controluce, a danzare zarathustrianamente su quel filo precario che è la ratio.
vedo che il camminare offre spunti stimolanti:
a Maria Gisella, che ha approfittato dell’argomento per proporci un delizioso racconto “sinestetico” di Paola Cerana, a sua volta carico di possibilità di riflessione, e godibilisssimo
a Ermanno Bartoli e Anna Pace, ferventi “innamorati della cultura trascendentale americana di Emerson e del gruppo di Concord”, che ci hanno affidato le loro riflessioni sulla capacità dell’uomo di trovare in se stesso le radici del nuovo, del bisogno di credere in noi e diffidare delle regole prefissate, del ruolo rigenerante dei geni
a Ideavagante, che molto poeticamente riassume il mio articolo estraendone un “succo” luminoso…
a tutti, grazie per aver condiviso con me il gusto del camminare, ritrovato nelle parole di Thoreau
marina
Interessante post cara
Marina.
Camminare… spesso passeggio sulla riva
del mare (abito in un villaggio al mare)
e a volte tutto scompare
rimango io
priva di pensieri e parte integrante
di tutto ciò che mi circonda
in quel magico momento.
Un saluto
Josè
Bellissimo articolo ossigenante come una passeggiata in primavera o in autunno, cioè una camminata in mezzo alla natura, aì bordi del mare come lungo un sentiero. Con questo tempo gelido e ventoso che favorisce l’immobilità( e la pigrizia) leggere un testo come questo è come camminare con l’immaginazione, sotto lo stimolo di diverse percezioni -solo un po’ assopite in questo periodo invernale. L’importante è usare -in sintonia- piedi e cervello insieme, ( quella parte del cervello non “razionale”) preposta, forse, alla nostra felicità edenica e originaria da ritrovare appena possibile, con tutti i nostri mezzi a disposizione, interiori ed esterni.
Anche scrivere è una bella passaggiata, in qualunque stagione. Spesso una sorta di cammino compensatorio, a volte dal sapore mistico, se scrivere è percorso di conoscenza.
Se rinasco un’altra volta, so cosa devo fare: camminare -fisicamente – molto di più.
Grazie,lucetta
grazie, Josè: camminare è anche una delle mie attività preferite, quando posso farlo in mezzo alla natura mi fa sentire ancora meglio, e provare sensazioni molto speciali, simili a quelle di cui parli tu!
e grazie anche a te, Lucetta, per aver definito il mio articolo “ossigenante” come una bella passeggiata! complimento davvero lusinghiero…personalmente, invidio ed ammiro chi – per necessità o per la propria natura – riesce ad essere attivo mentalmente e creativo senza muovere anche il corpo, passeggiando o viaggiando; io ho bisogno, invece, di alternare attività sedentarie e riflessive con attività di movimento ed esplorazione, altrimenti mi fossilizzo.
Non siamo esseri disincarnati! e usare insieme piedi e cervello, come scrivi tu, è piacevolissimo, e può anche portare a risultati creativi
ciao
marina
camminare quattro ore al giorno nella natura selvaggia e incontaminata ora come ora non è certamente possibile, mancano le quattro ore al giorno e la natura selvaggia. mi pare d’aver capito che questo camminare di cui sia parla sia anche un attraversare, un sentirsi far parte del tutto, seguire il corso del fiume o farne parte, seguire la corrente, essere ramo o pesce. interessante articolo, cammino poco, spero che la lettura di ciò mi invogli. ciao antonella
ciao Antonella, certamente ai tempi di Thoreau era possibile trovare 4 ore al giorno per camminare nella natura selvaggia, ma oggi penso che basti camminare anche un po’ (tanto) meno, e se la natura non è del tutto selvaggia pazienza, si procede comunque nel tutto e dentro se stessi…
a sproposito, lo sai che qui a Venezia si deve camminare più che in altre città, anche se camminiamo sulla pietra abbiamo meno malattie vascolari 🙂
marina
abito in una città tutta appesa, qui non è possibile usare neppure le biciclette (praticamente sconosciute) la discesa è ok, ma poi come si fa a risalire? 🙂
la tua deve essere una città molto caratteristica, bella ma faticosa! per quanto riguarda le salite:-(