Prefazione
I dieci mesi dell’Elba napoleonica sono un vero concentrato di motivi romanzeschi. In quel breve arco di tempo si produce sull’isola una specie di perfetta situazione drammaturgica. Un intermezzo carico di tensioni, in cui il presente è come schiacciato tra la mole della Grande Storia che si è appena consumata con l’abdicazione di Napoleone e gli addii di Fontainebleau e i lampi che prendono subito a scuotere l’orizzonte sempre più scuro del futuro prossimo. Perché è chiaro a tutti, vincitori e vinti, che la partita è ben lungi dall’essere chiusa, e che la scelta di attribuire all’imperatore appena deposto il minuscolo regno insulare è il rinvio di una resa dei conti che è stata semplicemente posticipata.
Lo sguardo dell’intera Europa, a partire da quello dei vincitori radunati a Vienna per elaborare faticosamente i futuri equilibri del continente, è fisso su Portoferraio. Là convergono tutti: l’indomabile Madame Mère e l’incantevole Paolina, l’infedele maestra di fedeltà; vecchi soldati che hanno seguito il loro sovrano anche in quell’ultima avventura, nobili turisti d’ogni nazionalità che vogliono vedere da vicino l’Eroe e magari capire come ha elaborato il lutto della sconfitta; uomini politici che sognano di farsi agenti e protagonisti di complesse rivincite; e naturalmente emissari, trafficanti e spie d’ogni risma, che giocano la loro partita di furbizie in quel teatrino d’intrighi che è diventato il Café du Bon Goût.
È questa la ghiotta materia romanzesca in cui ha pescato a piene mani Gianfranco Vanagolli. Appassionato ed esperto conoscitore della storia della sua isola, dei suoi incanti naturali, del sapido linguaggio dei suoi abitanti, vi inscena una caccia al tesoro del tutto verosimile, che ha il suo epicentro nella vecchia chiesa del Carmine, ridotta a magazzino militare e ormai prossima ad essere trasformata in quello che noi oggi conosciamo come l’elegante bomboniera del Teatro dei Vigilanti. Il suo protagonista è Jean Thomas, giovane tenente del genio che ha combattuto con il Beauharnais ed è richiamato all’Elba dall’intento di ricuperare ad ogni costo quel che risulta essere forse il frutto di attività corsare, allora comunemente ammesse.
Thomas potrebbe essere un personaggio stendhaliano, uno di quei giovani uomini di talento e di d’animo acceso che hanno l’avventura nel sangue e che nulla può fermare, nei loro sogni di gloria e di ascesa sociale. Il ventennio napoleonico si distingue proprio per aver saputo accendere e sfruttare le energie di una giovinezza che aspettava la propria grande occasione. Il pigro tempo dell’Ancien Régime, con i suoi privilegi, con il suo annoiato sussiego immobilista, è spazzato via dal furore rivoluzionario prima, e poi dall’impeto irrefrenabile delle guerre napoleoniche, che introducono qualcosa che sino ad allora non si era mai visto: la meritocrazia, il cui primo campione è proprio lui, l’Imperatore, il borghese che è arrivato a calcarsi in capo con le proprie mani la corona del potere sovrano, nella cattedrale di Notre-Dame, davanti a un papa ridotto ad essere un semplice spettatore.
L’ossessione del tempo è quella che caratterizza tutta l’attività di Napoleone, sia sui campi di battaglia, dove il suo esercito piomba sempre inatteso, che nel lavoro di statista e manager fondatore della modernità imprenditoriale. Il tempo diventa un bene prezioso che non può essere sprecato. Nulla è mai abbastanza rapido e tempestivo. I giovani sono i primi a raccogliere e far proprio questo messaggio. L’intera storia dell’Impero è una storia di giovani lanciati nel galoppo di una vita esaltante, fatta di sogni a portata di mano, di potenzialità da sfruttare. Sono gli avamposti della borghesia emergente che conquisterà il secolo con la sua intraprendenza.
Come appunto Jean Thomas, uomo d’azione che sa destreggiarsi istintivamente tra i molti ostacoli che la caccia al tesoro gli frappone. Dovrà scoprire l’esistenza di influenti logge massoniche a più livelli, evitare gli agguati dei sicari, decifrare le intenzioni dei cospiratori, accattivarsi la simpatia dei potenti quando certe sue imprudenze lo allontanano da Portoferraio per una Pianosa catacombale. La sua, in fondo, è una lunga galoppata che nemmeno amori consumati febbrilmente valgono a frenare. Tutto è mobile, tutto è indecifrabile, in quei dieci mesi, a partire dal volto dell’Imperatore che sta mettendo segretamente a punto il piano della fuga. Tutto corre in fretta verso la tragedia finale di Waterloo, che coinvolgerà anche Thomas.
Anche il lettore si abbandona a questo galoppo vitale, al gioco degli intrecci, al rincorrersi di protagonisti e comparse, variamente decisi a giocare la grande occasione della loro vita. Il romanzo di Vanagolli riesce a ricreare l’impeto giovanile di un’epoca convinta di saper inventare il proprio futuro. Una convinzione che l’Europa smarrita, confusa e spaventata di oggi non riesce più nemmeno ad immaginare.
Ernesto Ferrero
“Il Tesoro del Carmine” è un romanzo d’avventura ricco di colpi di scena, agguati, rischi mortali, coraggio, determinazione, amore, incontri fugaci, associazioni clandestine, spie e avventurieri di cui è protagonista un giovane di belle speranze, Jean Thomas, francese, di ascendenze corse, che si trova a vivere un momento storico convulso, coincidente con la parabola politica e militare di Napoleone e un’ Europa, già convocata a Vienna, nei suoi capi di stato e di governo, che progetta la Restaurazione.
Il motore della vicenda è, come nei migliori romanzi d’avventura, la ricerca di un tesoro in una chiesa, quella del Carmine, di Portoferraio ─ fondale di quasi tutta la storia ─ che, a sua volta, sta per diventare teatro. Ecco, il dinamismo è forse una delle possibili chiavi di lettura del novel, dove niente è stabile e duraturo: Napoleone è l’imperatore di un minuscolo regno, a cui si dedica con la frenesia che lo contraddistingue, progettando una viabilità moderna, un moderno sfruttamento delle risorse minerarie e tentando di coinvolgere nel cambiamento anche la sonnolenta Pianosa, ma il suo cuore e la sua mente sono altrove, oltre il Canale; Jean è approdato sull’Isola seguendo l’odore dei soldi, ma sull’Isola resterà coinvolto in una rete da cui si districherà fortunosamente, per approdare su altri lidi, ancora per poco nell’obbiettivo della Storia; la folla di uomini e donne al seguito del Grande è anch’essa fluida, in perpetuo movimento, aggrappata allo Scoglio come all’ultima zattera dei propri interessi, messi in forse dall’abdicazione di Fontainebleau.
Dunque trasformazione e metamorfosi, che investono anche la sfera dei sentimenti o delle passioncelle nelle pagine del “Tesoro”, ma in esse, oltre all’avventura c’è ben altro.
Per esempio, un’attenta, mai pedante, ricostruzione storica dei dieci mesi dell’esilio elbano, affidata spesso alla prospettiva dei personaggi, e che quindi fa tutt’uno con la fiction. Gianfranco ha giustamente messo a frutto la sua competenza in proposito regalandoci squarci autentici e godibissimi della Portoferraio napoleonica, con i suoi personaggi di fama mondiale, per esempio la mitica Paolina, le sue feste, i suoi capricci, la sua generosità, ma anche la vita, improvvisamente stravolta e coinvolta nel tourbillon della corte, della borghesia elbana, ansiosa di essere all’altezza del momento di gloria che l’Isola sta sperimentando. Senza dimenticare, naturalmente, i nostri paesaggi di struggente bellezza, che punteggiano ed esaltano i pensieri e le azioni delle creature coinvolte. Il tutto in una prosa fluida, piana, sapientemente ritmata, che non dimentica, accanto ai termini tecnici della navigazione e dell’ars militaris, le nostre espressioni gergali elbane né, tantomeno, i sapori della nostra cucina, i profumi delle nostre piante o la luce del nostro mare.
Maria Gisella Catuogno