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Con il film “Poesia che mi guardi” la regista Marina Spada ha reso omaggio alla poetessa Antonia Pozzi che il Novecento letterario italiano a lungo ignorò. Antonia non si sarebbe certo stupita di questa indifferenza, dal momento che per tutta la sua breve esistenza con essa fece i conti finendo vittima di una sorta di emarginazione intellettuale che rese ancora più amara la sua sfortunata vicenda esistenziale. Antonia Pozzi era l’unica figlia di un noto avvocato milanese e di una contessa discendente dello scrittore Tommaso Grossi; la sua breve esistenza fu sempre accompagnata da una sorta di sofferenza interiore sia per la solitudine intellettuale a cui la destinò la sua forza creativa di “donna”, sia per la dissimulata repressione a cui la consegnò il perbenismo della sua famiglia alto-borghese. Iniziò a scrivere poesie giovanissima; innamorata del suo professore di liceo fu costretta a rinunciare a sposarlo a causa dell’ostilità dei suoi genitori. Nonostante la sua grande potenzialità intellettuale non fu mai compresa dall’entourage accademico e artistico che la circondava e che liquidava il suo talento poetico come “disordine emotivo”. Incline alla malinconia depressiva, morì suicida a soli ventisei anni.
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