Poesia di introspettiva bellezza. La presa di coscienza di un rapporto finito. Persino la natura si intristisce se il nostro cuore è verso …“il cielo come imballato e unto”.
Incanta l’incastro di segretezze rese nude da un verso limpido e potente al contempo, che ha il privilegio di far calare nell’atmosfera offerta con naturalezza. Uno stile fluido che non inganna il lettore, che ben vede la ricchezza di un sentire mentre ne rimane affascinato.
Tu che non hai voglia di ascoltare più “glissi via evitando il contagio della parola..”, volutamente assente “chiusa in una tua sordità fanciullesca…”. Ormai è palpabile verità, ogni forma di dialogo è preclusa. Mi sfuggi corazzandoti di una glacialità a tutto tondo “un nucleo duro perfettamente sferico” che non permette spiraglio alcuno, e resti inattaccabile “..su cui accanirsi è esercizio – al più – di retorica.”
Una pulsione ferita, tentativi inevasi, in una scorrevolezza che coinvolge appieno.
Nel tentativo di riconquista l’appellarsi ad “altre cose incapaci di mentire”, e “linee” e “disegni”, àncore di speranza, tracce ultime a cui aggrapparsi. Ma “il corpo o il linguaggio dei segni” non bastano più, e quella sofferenza assume le fattezze del disincanto, ultimo approdo, l’inevitabile resa “la rinuncia”. Ormai non è rimasto nient’altro.
Pieghe d’ombra in una poesia di sentimento che Giacomo Cerrai porge con un supporto di autenticità tale che par veramente di vederlo quel “cielo imballato”.
Versi grondanti sofferente impotenza, che conducono con mano al di sopra di un logico apparente sentire. La “necessità del silenzio” sottintende spazi personali di riflessione, di quel confrontarsi e interrogarsi che da sempre muove il poeta nel suo canto.
Rina Accardo
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Il cielo come imballato,
e unto, e l’umore con cui
glissi via evitando il contagio
della parola, chiusa in una tua
sordità fanciullesca…
Nessuno convince nessuno: c’è sempre
un nucleo duro, perfettamente sferico,
su cui accanirsi è esercizio – al più –
di retorica. Opponi
linee di forza nelle pieghe della fronte,
e l’occhio all’occhio
come a pescare una mosca di dubbio
nel bicchiere. Oppure disegni con le spalle
un arco e non resta che ammirarti la nuca,
come se fossi a teatro terza fila.
Finita la logica, finite le strategie banali:
rimarrebbe il corpo o il linguaggio dei segni
o corpuscoli elettrici epiteliali
o altre cose incapaci di mentire.
Io di questo non so. Tuttavia
sommare questa stanchezza a quella dell’età
presenta fin troppi rischi,
la necessità del silenzio, la rinuncia, sedersi
su una panchina ad osservare
il cielo come imballato e unto,
indecidibile
come un male tardivo…