Come ogni mattina, apro gli occhi un attimo prima che la sveglia arancione suoni.
Come ogni mattina, sollevo la trapunta, appoggio i piedi sul pavimento e passo dalla sala per arrivare in cucina.
Come tutte le mattine, accendo il personal computer, carico la moka e la metto sul gas, spalmo la marmellata di more sul pane integrale.
Come tutte le mattine, vado in bagno ed apro il rubinetto del lavabo di ceramica bianco.

Il primo piacere della giornata è il contatto dell’acqua col viso; talvolta capita che sia torbida, specialmente dopo una giornata di cattivo tempo.
Di solito, se si lascia scorrere alcuni minuti, torna chiara. Stamani non è limpida.
Alzo la leva del rubinetto e nell’attesa che riacquisti un colore passabile, ancora mezza addormentata, vado a controllare la caffettiera e mi affaccio al vetro della finestra a guardare il cielo.
Seguendo l’orologio interno al corpo, inizio a sorgere lentamente.
Rientro in bagno, ma l’acqua ancora non è trasparente come mi aspettavo, si sta scurendo sempre più. Mi stropiccio gli occhi. Li riapro.
Ciò che vedo non mi piace: il liquido adesso è ancora più scuro, ha un brutto colore marrone.
Chiudo la porta, torno in cucina. Verso il caffè ristretto nella tazzina senza piattino, aggiungo una bustina di dolcificante e lo porto in sala.
Bevo il liquido scuro, benedicendo chi lo ha inventato, mentre gioco a scala quaranta col pc fumando la prima sigaretta della giornata.
Sbaglio a scartare. Lui vince la prima, io la seconda mano. Alla terza mi sono già annoiata e consapevole dell’inutilità della vittoria, perdo e chiudo.

L’acqua in bagno è ancora scura. Questa volta aspetto. Voglio svegliarmi del tutto.
Sopra il lavabo, un grande specchio riflette la mia immagine e una macchia nera a forma di puma. Chino la testa.
Dal rubinetto l’acqua che esce è nera come la pece. Non penso, meccanicamente abbasso la leva per chiudere il rubinetto; nello stesso istante, automaticamente si apre quello del bidet che zampilla liquido nero producendo un suono meccanico simile al pendolo di un orologio a cucù.
Non capisco; mi trovo ad osservare la stanza da bagno come se appartenessi ad un’altra realtà, spettatore di una rappresentazione teatrale all’inizio del primo atto quando ancora ignora l’atmosfera in cui sarà catapultato.
Inizio ad incuriosirmi. Decido di interagire con quanto succede sul palco.
Chiudo il bidet mentre il rubinetto della vasca si apre da solo e riversa con forza il liquido sulla ceramica, liquido nero che gorgoglia.
Anche la cassetta sopra il water si mette a versare imbrattando il blocco bianco e le mattonelle che avevo pulito una per una il giorno prima.
Rassegnata penso che dovrò riprendere in mano spugna e lisciva.
Con l’indice tasto il nero. Sembra latte, ma è petrolio, petrolio oleoso, appiccicoso, dall’odore pungente che a me piace. Sa di mare, di quando il catrame sulle ghiaie bianche a pois neri, a tradimento, mi sporcava i piedi mentre un ragazzo mi baciava, carezzando il seno coperto dal bikini.
Mi tocco il corpo con le mani sporche. Spalmo il liquido vischioso sulla pelle. Continuo sino a quando non sono del tutto ricoperta dalla sostanza nera. Mi specchio e rido; mi mancano gli anelli all’interno dei lobi e la labbra carnose che non ho per trasformarmi in un’ indigena di qualche sperduta tribù africana. Passo la punta della lingua sulle mie labbra fini e il sapore mi piace e allora ballo; ballo come se mi trovassi in un campo arido e strinato dal sole ad invocare la pioggia assieme ad altre persone simili a me. Immagino un cerchio e un capofamiglia nel centro che canta con un tono superiore agli altri: il suo aspetto è autorevole; nonostante sia quasi nudo, incute rispetto. Canta con le braccia alzate. Noi gli rispondiamo con formule cantilenanti che ricordano nel ritmo quelle delle litanie intonate dai preti. Noi? No, sono sola e sono in bagno.

Mi fermo, cerco di ricordare dove ho messo la trielina, se l’ ho riposta nello stanzino in fondo al corridoio o nell’armadietto del bagno assieme alle creme solari.
Nel momento che mi vede indecisa in quale direzione andare, tutti i rubinetti si aprono in contemporanea: water, bidet, vasca, doccia, lavabo, Il rumore è assordante, un fiume nero sommerge in pochi minuti l’impiantito, raggiunge le caviglie producendo dei piccoli mulinelli. Tante onde asimmetriche mi circondano, sulla cresta galleggiano bollicine come quelle che affiorano sul mare dopo una ponentata.
Il tempo di pensare ad un titolo, Petrolio in concerto, e urlo. Atterrita scappo da quel mare nero, che mi sembrava amabile e che ora vedo come una minaccia. Ho paura, paura che mi soffochi. Non voglio morire in questa maniera, sporcata di nero, sommersa da una sostanza ignobile e sconosciuta. Svelta apro la porta che richiudo con un colpo secco per salvare almeno in parte il corridoio dal liquido che già esce dalla fessura bassa in maniera silenziosa, ma costante.
E’ il momento di rimboccarsi le maniche e di iniziare la giornata.

Come ogni mattina, apro gli occhi un attimo prima che la sveglia arancione suoni.
Come ogni mattina, sollevo la trapunta, appoggio i piedi sul pavimento e passo dalla sala per arrivare in cucina.
Come tutte le mattine, accendo il personal computer, carico la moka e la metto sul gas, spalmo la marmellata di more sul pane integrale.
Come tutte le mattine, vado in bagno ed apro il rubinetto del lavabo di ceramica bianco.

Mezza addormentata tiro su l’avvolgibile della finestra. Scosto la tenda. Nel cielo nuvole filiformi ricordano quelle dei quadri secenteschi ; l’aria è luminosa, non buia. Il vento sposta i rami delle palme che si muovono come fossero marionette collegate al cielo da un filo di nylon.
Mi guardo allo specchio il viso ancora gonfio di sonno. Apro il rubinetto e con le mani a coppa raccolgo l’acqua che getto sul viso. Solo dopo lo insapono.
E solo dopo che l’ho lavato metto la crema idratante. E’ troppo bello sentire l’acqua arrivare sul volto come fosse un’ondata che si schianta contro uno scoglio che affiora in superficie e lo ricopre.
Allungo la mano per prendere un asciugamano e a destra, in terra, accanto al mobiletto bianco, mi pare di notare delle piccole forme scure, ma un pensiero mi distrae : ho dimenticato di far uscire Biancobaffo ieri sera.
Chiamo il cane che arriva scodinzolando, lo afferro per il collare e lo spingo fuori del portone da solo, anche se correrà dietro alle macchine abbaiando e mi toccherà ascoltare le lamentele del vicinato perché uscire in strada in vestaglia mi sa di vecchia.
Bevo il caffè, torno in bagno a lavarmi i denti. Strofino gli occhi dove minuscoli aloni scuri appannano la vista. Sono sveglia adesso, spalanco gli occhi, a fianco della vasca tante sfere di piccole dimensioni, nere, senza odore, né forma.
Non so come ci siano arrivate. A destra in basso sullo specchio noto una sagoma a forma di puma.
Torno in camera per mettermi gli occhiali che la sera depongo sul marmo nero del canterale. Li inforco. Prendo la scopa e pulisco. Mi lavo accuratamente le mani, verso un po’ di caffè nero in una tazzina aggiungo del latte e scaldo tutto nel forno a microonde. Guardo fuori della portafinestra.
Davanti a me scorrono le immagini di ogni giorno: il pensionato, diventato giardiniere, avvia la sua monovolume, lo scuolabus giallo coperto di polvere attraversa la strada, la prima uscita della signora in jeans con il cane, la corsa dell’autobus arancione con a bordo studenti, impiegati, donne delle pulizie, anziani che si recano all’ospedale per le analisi del sangue e Baffobianco che corre, corre come un fulmine dietro a uno strano animale nero. Che sia un puma? Rido da sola : “ Un puma in paese? Eppure, a pensarci bene, non sarebbe così assurdo. Tutto è possibile. “
L’aria appare linda e pulita, le nuvole sono lontane, ma è solo apparenza; esiste una gamma di colori tra il blu del cielo e il grigio delle nuvole che percepiamo a seconda delle nostre lenti.
Inforco gli occhiali da massaia e inizio ad aprire le finestre per far entrare l’ aria che mi sveglierà del tutto.