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Angelo Siciliano, Arte naïf, arti grafiche, Cecco Picecio, disegno, poesia dialettale, Salvatore D' Angelo
PDF di Angelo Siciliano
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Testi dialettali e disegni di grande bellezza. Lo stile naïf, i colori intensi e delicati evocano il tempo dell’infanzia quando tutto era avventura circolare senza tempo e la morte non era che lontana ipotesi o un racconto astratto.
‘ uccisione del maiale nel cortile per noi bambini era un momento di paura tensione e festa. Quando arrivava Tatonno O’ ‘Ccirapuórc’* con la borsa di cuoio a tracolla ci si adunava in turba chiassosa seguiti da mamme e sorelle maggiori.
”Secutàte ‘e ccriatùre!“*.
Nascosti nel suppígno* osservavamo con turbamento la caccia al maiale il quale, come presagendo ciò che gli sarebbe accaduto, riusciva a scappare per un attimo inseguito da uomini e donne che gli sbarravano la strada. Catturato, legato per i piedi, dava in strida strazianti; ormai Tatonno O’ ‘Ccirapuórc’ lo aveva arpionato alla giugulare e la recideva facendone scorrere, copioso, il sangue nel mastello.
Ricordo come fosse ora l’aria fredda e pungente del tardo pomeriggio di febbraio, le donne affaccendate attorno all’acqua bollente, gli uomini piegati a tenere ben fermo il maiale il cui solo scampo era nelle strida alte e intense; tutta la sua vita fluiva tra gli spasmi e lo strazio della gola.
Ricordo come fosse ora – gli occhi sbarrati il cuore in gola ipnotizzato dall’urlío della bestia – quegli occhi roteanti invasi dal terrore, lui che raccoglieva tutte le forze e s’induriva allo stremo per sfuggire alla morsa di mani braccia e piedi che lo inchiodavano al suo destino.
Le prime ombre calavano sul cortile, la bestia, rassegnata, andava rilassando i muscoli, abbandonato all’agonía, mentre gli ultimi flussi di sangue lambivano i bordi del mastello.
” E’ mmuort’, jamme tirate!”*
Al comando di Tatonno, tutto cambiava come nel rapido svolgersi di una quinta di teatro; alla violenza ora seguiva il rito e la festa, il tempo della vita; ritmo e sincrono erano precisi, ciascuno sapeva cosa fare: un gruppo issava su il maiale, figgendolo per la schiena allo scalillo*; le donne pronte con i secchi d’acqua bollente, Tatonno o’ CCirapuórco dava un’ultima affilata ai coltelli, mentre l’assistente gli allacciava il grembiule di cuoio.
“Prujàteme ll’acqua!” ordinava Tatonno con un gesto imperioso. Le donne gli passavano secchi ricolmi d’acqua bollente, con cui il norcino irrorava abbondantemente il corpo del maiale ora avvolto in una nuvola di vapore.
Quello era un segnale anche per noi: potevamo uscire dai nascondigli per assistere al rituale della scuoiatura, squartamento e sfasciamento della carcassa del maiale da una più consona distanza.
“Uagliù, assettàteve llòco e nun facíte ammuína”* brontolava Tatonno. Dopodiché provvedeva a far scorrere una lama affilatissima su tutta la superficie del maiale, con gesti rapidi ed esperti. Le setole venivano raccolte in un tino, che l’assistente passava alle donne.
Il corpo lucido e bianco del maiale ora campeggiava come un panno rigonfio davanti a Tatonno, che lo osservava col capo reclino come a individuare un punto preciso su cui operare.
Poi, dopo aver tastato il centro simmetrico del corpo della bestia, infilzava il coltellaccio sotto la gola e con precisione chirurgica operava un taglio netto e verticale sulla cute, dividendola in due con un solco sempre più profondo fino a che non veniva fuori la struttura delle ossa.
Io osservavo il viso-maschera del maiale e mi pareva di cogliervi un’espressione comica, il muso a cilindro le lunghe orecchie impallidite e rigide come a volermi dire “ecco, li ho fregati tutti…sono volato via…qui ho lasciato solo la mia maschera”
A quel punto il trauma era assorbito; i gesti rapidi e precisi che seguivano, l’estrazione del cuore e dei polmoni del fegato della milza del sacchetto della bile e via via delle interiora e della vescica – che Tatonno gonfiava facendocela ballonzolare davanti agli occhi con un gioco di prestigio – tutto ci faceva rapidamente dimenticare le urla e lo strazio di prima.
A quel punto il maiale era altro, era i gesti affaccendati degli adulti presi dall’ euforia che si trasmetteva fino a noi. Era il viavai delle donne che trasportavano i mastelli con le parti del maiale nella stanza a piano terra dove il norcino preparava gli insaccati il fegato da spezzettare e soffriggere e divideva il sangue buono per la frittura e quello per il sanguinaccio.
Intanto noi si seguiva tutto e a quel punto davamo una mano, portando legna e cannàtoli* per alimentare il fuoco sotto i pentoloni dove bollivano le carni da preparare a pajata e peremmùsso* o dove veniva sciolto il lardo per la sugna; mamme e sorelle maggiori ci guardavano con occhi complici e partecipi promettendoci a breve una bella sorpresa.
Noi lì, già testimoni attoniti della passione e morte di cecco picécio, ora cantavamo eccitati in attesa della sorpresa che di li a poco si sarebbe materializzata nella torta di squisito sanguinaccio che mia madre distribuiva a tutti i bambini e a me in particolare, con una carezza e uno sguardo tenero, a lavarmi dal fondo degli occhi il velo della morte.
Ormai la sera s’era impadronita del cortile appena rischiarato da una lampadina sospesa a un volant. In un angolo Mastuttatonno e tutti i maschi adulti bevevano un robusto vino rosso scambiandosi le ultime impressioni mentre riponevano a ‘rdégna* e le donne lavavano il cortile.
Io davo uno sguardo timoroso a quella macchia scura in fondo al buio… Chissà se più tardi, a letto, avrei riascoltato quelle strida o rivisto quegli occhi roteanti di terrore. Intanto mi abbracciavo stretto a mamma, affondandole il viso nel grembiule all’altezza del pube.
Ora, da adulto, in questo tempo postmoderno la morte è altro. Non è più una parte del rituale della vita, una esperienza individuale vissuta in modo collettivo, sia che riguardasse gli animali simboli festosi e fraterni del mistero dell’esistere, sia che riguardasse i nonni uno zio un conoscente.
Allora si moriva in casa e una folla di familiari vicini e conoscenti assisteva alle ore estreme del passaggio in cui nell’ultimo soffio ci si congedava dal fragile sentimento dell’umano.
Ora la morte è altro è aliena, ora si crepa si muore soli; la cultura non insegna più a vivere la morte con dignità.
La morte è come cancellata dalla vita, da questa non vita che è una morte.
La morte è esorcizzata. E quando viene fa terrore perché nessuno sa più riconoscerla o accettarla con serenità.
Si è soli, senza nemmeno la carezza calda di vita di una mamma, di una donna-figlia, di un padre-figlio o di un figlio-padre.
Così ( più non) sia.
Parliamone.
FINE
*
Note sul dialetto nel testo:
Tatonno O’ ‘Ccirapuórc’, Antonio il Norcino
Secutàte ‘e ccriatùre! , Allontanate i bambini
Suppígno, il soppíno, sottotetto delle case a corte spagnola, dove si stivava grano, granturco, tabacco, canapa lavorata e quant’altro prodotto nei campi di Terra di Lavoro
E’ mmuort’, jamme tirate!, E’ morto, dài, tiratelo su!
Scalillo, scala a V rovesciata con paletto di sostegno utilizzata per cogliere i fichi e, nell’occasione,
ad appendervi il maiale per lo scuoiamento
Prujàteme ll’acqua, Passatemi l’acqua
Uagliù, assettateve llòco e nun facite ammuìna, Ragazzi sedetevi lì e fate i buoni
Cannàtoli , residui di legnetti secchi di canapa utilizzati per fare la fiamma nel forno del pane
pajata e peremmùsso, la pagliata è l’intestino tenue del vitellino da latte e/o del maiale. Bollito veniva servito con sale e limone o in salsa di pomodoro; il piede e il muso del porco, bollito, veniva servito freddo in cuóppi, cartocci conici di carta ruvida da macellaio con sale grosso e abbondante spremuta di succo di limone
Mastuttatonno, Mastro Antonio. L’appellativo di Masto (da Maestro) spettava a ogni specializzato
A ‘rdégna E’ l’insieme degli strumenti e attrezzi utilizzati, coltelli, tini, scale eccetera
*
Note di pronunzia delle espressioni dialettali:
L’accento tonico cade sempre sulla vocale accentata.
Ó , ‘o = o chiusa ò, à, è = vocali aperte
È= e chiusa; e tra due consonanti e in fine di parola = semimuta
Sc = pronunzia come in scena, scivolo, scelta
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Precisazione dell’ autore
Questo testo l’ho scritto di getto, leggendo su Comunità Provvisoria un paio di post dedicati ad Angelo Siciliano, poeta e pittore di stile naif. Per chi volesse leggerli, i post sono rintracciabili su COMUNITA’ PROVVISORIA.
(Salvatore D’ Angelo)
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Note biografiche di Angelo Siciliano
Angelomaria all’anagrafe, figlio di contadini, nasce a Montecalvo Irpino l’8 maggio 1946. Nel 1949, con l’unico fratello di dieci mesi, rimane orfano del padre Silvestro, deceduto a 25 anni per le complicanze della malaria malcurata, contratta in Puglia, nelle campagne di Troia, come bracciante all’età di 18 anni. La madre, Mariantonia Del Vecchio, di carattere fiero e orgoglioso, rinuncia a rifarsi una vita e porta avanti la famiglia da sola, lavorando duramente nei campi. Dall’età di 14 anni inizia, da autodidatta, la propria produzione in pittura e poesia. Per questioni economiche e familiari deve rinunciare ad iscriversi al liceo artistico di Napoli. Nel 1963 è pubblicata per la prima volta una sua poesia su Miscellanea, giornalino della propria scuola, l’I.T.C. ”G. Bruno” di Ariano Irpino. È un sonetto dedicato al terremoto del 1962.
Nel 1965 esegue opere caricaturali per la festa studentesca MK P 100, che si tiene cento giorni prima degli esami per ragioniere.
Consegue il diploma di ragioniere e s’iscrive alla facoltà di Economia e commercio presso l’Università di Napoli.
Esegue opere pittoriche satiriche, in occasione delle elezioni amministrative montecalvesi. Nel 1966 dipinge due tempere con S. Pompilio Maria Pirrotti, che sono esposte al pubblico per anni nella casa natale del santo e poi conservate presso il reliquiario.Collabora in famiglia, sino all’età di venti anni, nei lavori agricoli. Parallelamente al corso di studi curricolari, inizia uno studio autonomo delle arti figurative, della storia dell’arte, della narrativa e della poesia contemporanea, nazionale e internazionale.
Non trascura di ascoltare diversi generi di musica. Disegna, dipinge, scolpisce, scrive, frequenta mostre e discute con alcuni amici più di cultura che di questioni politiche. Tutte cose che continuerà a fare anche in seguito. Dall’autunno del 1966 si trasferisce nella città partenopea e lavora per due anni come istitutore in un convitto religioso di S. Giorgio a Cremano, per mantenersi agli studi.
Nel 1968 esegue alcune opere a tempera e ne fa omaggio per l’arredo della sede della Polisportiva Montecalvese, di nuova costituzione. Aderisce al movimento di lotta e contestazione studentesca del Sessantotto e nel 1969 partecipa, per otto mesi, all’occupazione della sua facoltà, contro i baroni dell’università e la borghesia dominante, vale a dire quella che allora era indicata come “nemico di classe”. La sua è una partecipazione alquanto passiva e carica di dubbi. Alla prova dei fatti, i baroni sarebbero rimasti al loro posto e la borghesia pure, con qualche ingannevole operazione di lifting estetico.
Durante i mesi dell’occupazione conosce la futura moglie, Maria Paparo, napoletana di padre calabrese, anche lei studentessa universitaria.
Nel luglio 1970 si laurea in Economia e commercio. Gli viene offerto subito un “posto” al Museo Provinciale di Avellino, che lui si guarda bene dall’accettare. Da ottobre ’70 a dicembre ’71, non essendo ancora consentita l’obiezione di coscienza (c’era già stato però qualche arresto e conseguente condanna di obiettori da parte dei tribunali militari), presta controvoglia il servizio militare di leva a Venaria Reale (TO). Prende atto dell’ideologia nazista di qualche ufficiale in servizio. Ha l’occasione di conoscere il clima politico-sindacale di una grande città del Nord, appartenente all’allora Triangolo industriale con Genova e Milano. È già cominciata l’epoca degli autunni caldi, con le contrapposizioni sociali e le lotte, anche aspre, che avrebbero caratterizzato poi gli anni Settanta, segnati duramente anche dal terrorismo politico di destra e di sinistra. Frequenta i luoghi storici e i musei cittadini, le mostre d’arte e prosegue la propria formazione artistico-letteraria. Condivide la condizione dell’emigrante e la nostalgia struggente per la propria terra d’origine con gli amici immigrati a Torino, lavoratori della FIAT o di altre aziende, ospiti in vecchi palazzi del centro, col cesso in comune sul ballatoio, o in caseggiati fatiscenti dei sobborghi della città.
Nel febbraio 1973 riceve l’incarico d’insegnamento a Trento. Si sposa e risiede con la moglie in questa città, dove entrambi sono stati docenti nel locale Istituto Tecnico Commerciale.
Nel 1974 nasce il primo figlio Antonello e nel 1976 il secondogenito Adriano.
Nel 1977 tiene a Trento la sua prima mostra di pittura, con oltre cinquanta opere, e pubblica il primo libro di poesie.
È in stretto contatto con alcuni poeti e artisti locali; tiene diverse mostre personali di pittura e partecipa a mostre collettive. Continua a produrre poesie e inizia a scrivere d’arte. È giornalista pubblicista dal 1989. Scrive articoli e talvolta pubblica anche disegni su alcune riviste: U.C.T., Arte e Arte, Rene & Salute, JUDICARIA. Collabora per diversi anni con la D’Ars di Milano, per l’arte contemporanea, con articoli su quotidiani o riviste. E’ stato segretario di due associazioni artistico-letterarie, nonché direttore di due periodici d’associazioni culturali. Come pittore, ha tenuto 17 mostre personali e ha partecipato a diverse collettive. È inserito nell’archivio ADAC del MART, Museo d’Arte Contemporanea di Trento e Rovereto. Ha pubblicato finora tre raccolte di poesie in lingua: Versi biologici nel 1977, Tra l’albero di Giuda e quello del Perdono nel 1987 e Dediche nel 1994.
Nel 1993 è inserito nell’antologia CONTROPAROLE, di 13 poeti trentini contemporanei, curata da Giuseppe Colangelo per le edizioni Arca di Trento. La radio della sede Rai di Trento gli dedica, nel 1994, un’ora di trasmissione per la sua poesia in lingua.
Nel 1998, con la sua classe quinta ragionieri, partecipa ad un concorso nazionale con un ipertesto multimediale contenente diversi suoi disegni, sulla storia e sull’archeologia di Trento. Il lavoro è fruibile nel sito della scuola http://www.itc-tambosi.tn.it Area umanistica diramazione Storia.
Nel 2001 è accolto nell’antologia Tempi Moderni, raccolta di poeti contemporanei delle varie regioni d’Italia, edita da Libro Italiano World di Ragusa.
In questi anni ha accumulato molto materiale poetico per la pubblicazione potenziale di altre raccolte di poesie in lingua, di cui una con i tanti testi ispirati al Sud-Mediterraneo.
Dopo aver tenuto compressa e celata per anni la propria cultura arcaica, che talvolta ha fatto capolino nei versi in lingua e in qualche disegno, inizia dal 1987 un recupero glottologico e antropologico ad ampio raggio, per il proprio paese d’origine, Montecalvo Irpino (AV).
Nel 1988 pubblica, presso l’editore Menna di Avellino, un libro di 160 pagine scritto a Zell (TN), Lo zio d’America, con testi vari in dialetto e traduzione a fronte, che è presentato prima al Sud e poi a Trento, presso la locale facoltà di Lettere. Mario Sorrentino, nel suo intervento, scrive che Siciliano sta “tentando un’operazione di salvataggio culturale veramente sconvolgente per la storia poco conosciuta della nostra etnia irpina”.
Dopo la pubblicazione di questo libro avanza due proposte progettuali:
1. nel 1988 propone agli amministratori comunali montecalvesi la realizzazione di alcuni murales, per il decoro del paese, da eseguirsi da parte di alcuni pittori muralisti, conosciuti a Piano Vetrale (SA), come membro di una giuria per un concorso artistico;
2. nel 1989 elabora un proclama per l’istituzione di un Museo Intercomunale dei Mestieri e della Civiltà Contadina nell’Alta Irpinia orientale, e lo pubblicizza nello stand del Comune di Montecalvo, allestito in occasione della VI Fiera della città di Ariano Irpino, tenutasi in agosto ‘89.
La proposta per i murales è accolta ed è eseguita una striscia pittorica, lunga un centinaio di metri, con miti e fatti di storia locali. Il proclama per il museo cade nel vuoto.
La radio della sede Rai di Trento, nel 1988, gli dedica un’ora di trasmissione per il lavoro di recupero della cultura arcaica di Montecalvo.
Per alcuni anni, l’emittente montecalvese Radio Ufita diffonde, in Irpinia e parte del Sannio, i testi de Lo zio d’America letti dall’autore.
Non potendo il contenuto di questo libro rappresentare tutta la cultura orale montecalvese, decide di proseguire il lavoro con l’intento di realizzare due obiettivi. Da un lato avvia una ricerca meticolosa sul territorio, per raccogliere fedelmente il materiale folclorico dalla viva voce degli informatori dialettofoni. Dall’altro, facendo leva sull’imprinting e sulla propria creatività, recupera e scrive la parte sommersa di essa, non testimoniata, ma vissuta personalmente o percepita nell’ambiente, col metodo della “conoscenza illuminata”.
Tra il materiale riscontrato, il testo più significativo è quello del poema contadino cantato Angelica, di ben 107 quartine.
Tra il materiale prodotto autonomamente, la parte più corposa è costituita dalle oltre trecento confessioni degli antenati, di trenta versi l’una, inserite in un contesto presepiale-teatrale, che riassumono a tutto tondo la vita della collettività locale.
Il tutto è scritto in dialetto montecalvese d’inizio Novecento, che è lo stesso dell’Ottocento.
Col materiale, raccolto o prodotto, si è venuto definendo un archivio completo della locale civiltà agropastorale.
Ricostruisce l’iconografia della veglia funebre e del pianto rituale con opere, di forte carica espressiva, presentate nel 1993 in una mostra personale a Castel Drena (TN).
Crea tanti altri disegni ispirati a temi etnici.
Sarebbero possibili una decina di pubblicazioni con tutto il materiale in dialetto, recuperato o prodotto finora. Oltre 25.000 sono i versi finora scritti, di cui meno di 7.000 quelli pubblicati.
Nel 1999, Otto canti, tra religiosi e funebri, per la maggior parte dell’Ottocento, degli oltre cento raccolti finora, sono pubblicati ad Avellino, anche con la trascrizione delle note musicali, nel volume Canti religiosi, curato da Aniello Russo per tutta l’Irpinia.
Dal 2002, per iniziativa di Alfonso Caccese, sono dedicate alla sua opera, edita e inedita in dialetto e in lingua, alcune pagine web nel sito http://www.irpino.it sotto Cultura e tradizioni.
Nel 2003 lascia l’insegnamento per dedicarsi a tempo pieno all’arte, alla poesia, alla cultura e all’archeologia.
Il 26 e 27 settembre 2003 partecipa come relatore allo SPEA8, Seminario Permanente di Etnografia Alpina n. 8, “CONTADINI DEL SUD CONTADINI DEL NORD. Studi e documenti sul mondo contadino in Italia a 50 anni dalla morte di Rocco Scotellaro”, organizzato dal Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina di San Michele all’Adige, e sviluppa per l’occasione due relazioni: Un patrimonio ritrovato nel dialetto irpino dell’Ottocento e Dopo Scotellaro: trasformazioni epocali nel mondo contadino meridionale.
Nel 2004 è accolto con quindici poesie in lingua nell’antologia FERMENTI Poeti Italiani Contemporanei, Serie Oro, edita da Libroitaliano World International Publishing House di Ragusa. Sempre per iniziativa di Alfonso Caccese, è aperto il sito http://www.angelosiciliano.com con alcune decine di pagine web contenenti materiale prodotto nel corso degli anni. Il sito è aggiornato continuamente con nuovo materiale.
Una sintesi della relazione Dopo Scotellaro: trasformazioni epocali nel mondo contadino meridionale esce, con due suoi disegni antropologici scotellariani, nel libro La scuola del ponte, edito dal Liceo scientifico e linguistico “Leonardo da Vinci” di Trento.
Una sua nota sul dialetto montecalvese, il testo scritto Lo zio d’America e relativa lettura escono ad Avellino nella Grammatica del dialetto irpino con CDR, a cura di Aniello Russo. Dona il TRITTICO DELL’ABBONDANZA, con presentazione di Giovanni Bosco Maria Cavalletti, composto di tre poesie alla Madonna dell’Abbondanza, una in lingua e due in dialetto irpino di metà Ottocento, unitamente a cinque suoi pastelli originali, alla Parrocchia S. Pompilio Maria Pirrotti di Montecalvo Irpino.
Collabora con la prof. ssa Paola Benincà, dell’Università di Padova, aderendo alla compilazione del “Questionario generale per i dialetti centro-meridionali” con la traduzione nel dialetto di Montecalvo Irpino (AV) delle 218 frasi proposte dal questionario e la coniugazione di tre verbi. Fa circolare la raccolta di “Articoli e saggi brevi”, una scelta di articoli e saggi editi su quotidiani e periodici, con alcuni testi poetici e proprie illustrazioni. È inserito nell’Archivio del Centro di documentazione per la poesia dialettale Vincenzo Scarpellino, c/o Biblioteca Comunale G. Rodari, Via Olcese n. 28 – 00155 Roma.
Nel 2006 è accolto nell’Antologia italiana Poeti Italiani Contemporanei, edita da Libroitaliano World Casa Editrice Internazionale di Ragusa. Fa circolare alcuni suoi fascicoli con propri testi poetici in dialetto e in lingua e opere pittoriche: “Trilogia dell’abbandono“, con prefazione di Mario Sorrentino, e “Munticàlivu ‘mpónt’a lu siérru”. Grazie alla sponsorizzazione del Comune di Montecalvo Irpino, esce il suo Calendario artistico-culturale per il 2007, con opere pittoriche, foto di reperti archeologici e testi poetici in dialetto irpino dell’Ottocento.
Continua la collaborazione giornalistica con la rivista JUDICARIA ed escono suoi articoli su “La Vigna”, periodico della Confraternita della Vite e del Vino di Trento, di cui fa parte. Diversi saggi brevi sulla civiltà agropastorale irpina sono usciti negli ultimi due anni sul “Corriere”, quotidiano dell’Irpinia. Qualche articolo è uscito sul periodico “Altirpinia” di Lioni (AV).
Dal 13 al 15 agosto 2007, partecipa a Lioni (AV), su invito dell’Associazione “FATECI RESPIRARE”, alla “Prima mostra del libro di Autori locali”, organizzata in collaborazione con il periodico “Altirpinia” e il Comune di Lioni. I suoi libri e i suoi fascicoli esposti saranno accolti nell’Archivio degli autori irpini, di nuova creazione.
In 40-50 anni di ricerca tra le zolle della campagna, ereditata dal nonno paterno e coltivata dalla madre in contrada Costa della Menola a Montecalvo Irpino, ha messo insieme una straordinaria quantità di reperti archeologici che vanno probabilmente dal Paleolitico, 10.000 anni a. C., al XIX secolo. Con questo materiale può essere allestito un museo. In agosto 2007, otto monete del Settecento e 26 medaglie sacre e un crocifisso, rinvenuti negli anni alla Costa della Menola, sono esposti nel Museo Pompiliano di Montecalvo, creato dall’abate don Teodoro Rapuano.
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Contatti
E-mail: angelo46@inwind.it
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Sito artistico personale
http://www.angelosiciliano.com/
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“Cartoline dai morti” di Franco Arminio: intervento di Salvatore D’ Angelo
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Sara Ferraglia ha detto:
Ho letto tutto con grande attenzione e apprezzato il pastello sull’uccisione del maiale.
Sono originaria di una zona nella Valle del Torrente Parma, provincia di Parma, Emilia, che ha basato e tuttora basa sul maiale la sua economia ( il prosciutto di Parma, il salame di Felino ), partendo in tempi ormai lontani proprio da questa “uccisione rituale” per poi arrivare oggi all’elettrica uccisione industriale nei macelli della Bassa Padana.
Si muore in modo diverso, è vero.
Sia l’uomo che, in questo caso, l’animale.
Splendida anche la poesia in dialetto , difficile da leggere per chi è di fuori regione ma, come tutte le poesie dialettali, viva e musicale.
Sara
Sara
neobar ha detto:
un caro saluto con una poesia di Salvatore Toma:
Il maiale
Il maiale
era lí che mi guardava.
Il macellaio
faceva finta di niente
e gli girava intorno indeciso
col coltello allucinato.
Voltai l’angolo
il maiale pareva
implorarmi a restare
posando alla catena
come un lupo in olfatto.
Cosí rimasto incantato
non sentí il coltello
forargli la gola
e non vide il sangue
colargli a dirotto.
Era tutto concentrato
a rivedermi apparire.
abele
Antonio D'Agostino ha detto:
grazie , salvatore . mi hai fatto rivivere quel tempo lontano in cui il maiale che i miei acquistavano per natale veniva lavorato e preparato proprio nella stanza da dove scrivo. ti racconto tutto da vicino.
grazie
Angelo Siciliano ha detto:
Caro Salvatore D’Angelo, nel mio dialetto montecalvese, Tatonno O’ ‘Ccirapuórc’ sarebbe Totònnu l’Accidipuorci, perché da noi non c’è il “rotacismo”, cioé la d trasformata in r. Bello il tuo scritto. E commovente, per me, è quando, come in questo caso, attraverso il dialetto e le iconografie si dischiude la memoria e ci torna il passato, bello o brutto che sia: ci restituisce gli affetti e le nostre radici, che non erano perdute in noi. Le avevano solo un po’ offuscate la polvere degli anni e le luccicanti blandizie di questo mondo attuale distratto. In poco più di 20 anni ho scritto più di 30.000 versi dialettali: è come se esponessi su un palcoscenico poetico- pittorico-antropologico la “defunta” civiltà contadina, più o meno simile a tutte le latitudini. Nell’archivio del mio sito, http://www.angelosiciliano.com, in “Articoli e saggi” vi sono i testi che ho elaborato in questi ultimi 5-6 anni e anche alcuni precedenti. Essi possono stimolare i lettori a trovare similitudini nel proprio dialetto e nel passato del proprio paese. E, per me, questa è la migliore tra le ricompense. Se serve, posso inviarvi dei miei file pdf pertinenti. Buona cultura e buona poesia, Salvatore. Angelo Siciliano
Salvatore D'Angelo ha detto:
Innanzi tutto vorrei ringraziare Paola Lovisolo per la disponibilità e per l’accurata opera di editing e impaginazione del post. Un grazie va ad Angelo Siciliano per tenere alta la bandiera della poesia dialettale, autentica grande lingua madre che dà nerbo all’asfittica lingua nazionale che ha già il difetto di nascita in quanto lingua artificiale, letteraria. Senza il dialetto – così come senza l’arte e lo stile naif nel figurativo – non vi sarebbe la forza e lo splendore delle grandi opere. Sul tema si sono versati fiumi d’inchiostro almeno da Dante in poi ( e anche prima), pertanto mi astengo dall’aggiungere altro. I dialetti hanno ritmo e musicalità universali, e ciò accade in ogni accento di coloro che vivono di cultura materiale, quale che sia la loro collocazione geografica. Quella universalità li accomuna, checché ne pensino Bossi e i leghisti. Perciò ho fatto un esperimento di riversamento – più che di traduzione- nel mio dialetto del bel testo di Fabio Franzin apparso su http:/www.lapoesiaelospirito.wordpress.com il 27 novembre e che riporto qui sotto , assieme alla versione in lingua nazionale. Vale come ulteriore ringraziamento a Paola, nuovo omaggio al lavoro di Angelo Siciliano e come augurio. Il 2011 è l’anno del 150° anniversario dell’Unità di questo nostro scassatissimo ( e vitale) Paese. A proposito di festività celebrativa del 17 Marzo e del pessimo esempio che sulla questione stanno dando i politici di palazzo, se auguri sono a farsi, per quel che mi riguarda credo vadano fatti proprio a questo Paese che fatica e essere Nazione. Un augurio che non faccia risuonare ancora il grido dantesco “Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiero in gran tempesta, non donna di provincie, ma bordello” (Purgatorio, Canto VI vv.76-78), che invece possa servire ad avviare un dibattito, civile e in profondità, su di noi in quanto Italiani, su di noi in quanto aggregato di territori, di culture e di accenti dialettali – la nostra grande ricchezza – come ebbero la lungimiranza di capire i padri costituenti nel 1946-48. Un dibattito sui ritardi nell’attuazione di alcuni dettami costituzionali ( le Regioni, previste nella Costituzione, furono avviate solo 25 anni dopo) e sull’ inattuazione di altre e fondamentali parti. Con l’augurio che vada in profondità sugli aspetti peggiori del nostro carattere e che si possa addivenire a proposte condivise, per un nuovo assetto costituzionale, politico, amministrativo, frutto del concorso di idee di tutti i territori, alla pari, senza furberie albertosordiste. Auguri di cuore a noi tutti e al nostro Paese, anche se questo parrebbe un “altro discorso”, rispetto al tema.
Incùo
di Fabio Franzin
Incùo el mé fiòl pì pìcoeo
l’é ‘rivà daa só camaréta
co’ un pòche de machinete
rote in man, rodhèe e tòchi
de plastica che ghe caschéa
fra ‘e piastrèe del pavimento
– ‘a só voséta prima de lù, là,
drio ‘l coridòio – “papà, se
non riesci a trovare lavoro
in una fabbrica potresti fare
il meccanico che aggiusta le
macchine intanto incomincia
a giustare le ruote di queste
mie che sono rotte”. E ‘lora
méterme là co’ un cazhavidhe
cèo e ‘a pazhienza che no’ò
mai bbu, a provàr, ‘na rodhéa
cavàdha de qua e una ‘tacàdha
de ‘à, a tornàr a far córer chee
machinete. Chissà se ‘l destìn
varà ‘a stessa pazhienza, co’
mì, se ghe sarà un calcùn bon
de tornàrme invidhàr i sèsti
tee man, parché ‘e pòsse tornàr
a córer anca lore… pa’l pan.
Oggi il mio figlio più piccolo / è arrivato dalla sua cameretta / con un mucchietto di macchinine / rotte fra le mani, ruote e pezzi // di plastica che gli cadevano / sulle piastrelle del pavimento / – la sua vocina prima di lui, lì, / lungo il corridoio– “ papà, se / non riesci a trovare lavoro // in una fabbrica potresti fare / il meccanico che aggiusta le / macchine intanto incomincia / ad aggiustare le ruote di queste // mie che sono rotte”.E allora / mettermi lì con un cacciavite / da orologiaio e la pazienza che non ho / mai avuto, a cercare, una ruota // tolta di qua e una fissata / di là, a tornare a far correre quelle / macchinine. Chissà se il destino / avrà la stessa pazienza, con // me, se ci sarà qualcuno capace / di riavvitarmi i gesti / alle mani, affinché possano tornare / a correre, anch’esse… per il pane.
(Nel dialetto Veneto-Trevigiano dell’Opitergino-Mottense)
Ogg’
Ogg’ ‘o figliumì criatùro
è ‘sciùto ‘rà stanzetta sòja
cu quàtt machinuscèlle’nzìno,
rutellùcce e piézzicciùlle
‘e plastica ca le carévano
‘nterr’ò pavimènt’e piastrèlle
– e prìmm’ e ìsso, ‘a vuciarèlla
sója llà, ‘ind’o curridojo- “papà,
se non riesci a truvà lavoro
in una fabbrica potresti fare
o’ meccanico che aggiusta le
macchine intanto incomincia
a’ccuncià le ruote di queste
mie che sono rotte”.E ccù
‘na santa paciénza ca nù ttèngo
me mécc’llà, ‘o cacciavìte
‘e lilurgiàro ‘mmàno, na rutèllùccia
ccà na vitarèlla llà, pe’ veré
si pòzz’ fa turnà’a correre ‘e
pazzièlle ‘e fígliemo. Ma chisà si cu’mmé
o’ restìno tenarrà ‘a stessa paciénza,
si coccherùno sarrà capàce
‘e me ‘rà cord’ ancòr’e mmàne,
pe veré si pure ‘lloro putarrànno
turnà ‘a se mòvere pe’ nu piézz ‘e pàne.
(Nel dialetto Napoletano – Casertano della Zona Atellana)
Naturalmente la traduzione in lingua nazionale è sostanzialmente quella a pié di testo dell’originale di Fabio Franzin.
Qualche nota di fonetica sulla pronuncia del dialetto atellano:
è = è aperta
é, e ‘e = é chiusa
o’ ó = o chiusa
o= o aperta
L’accento tonico è sempre sulle vocali accentate.