TURNO DI GUARDIA
un inedito di Marco Ercolani
(vincitore del premio Montano 2010 per la prosa inedita)
Corsia notturna
Durante il giorno mi riferiscono deliri malinconici o magiche visioni del mondo. Mi raccontano crimini inesistenti, ingiustizie spietate, desideri favolosi. Parlano e parlano. Commentano, delirano. Ma, a notte alta, quando dormono nella corsia, vorrei spiarli con una piccola pila, attento a non fare il minimo rumore, vorrei capire se la sofferenza di poche ore prima ha lasciato una cicatrice reale nella loro pelle. Immagino occhi scuri, palpebre pesanti, labbra semiaperte. Oppure volti deformati da accessi di collera e pianti clamorosi che riposano come se nulla fosse accaduto, smemorati, immersi in un silenzio collettivo. Ma quella pace non mi appaga: è generica, vuota. I folli, svegli o dormienti, non sono mai simboli. Non voglio camminare accanto ai loro letti. Torno nella mia stanza di guardia, mi addormento. Comincio a scrivere di loro.
Mi chiedo se sono spettatore delle loro voci o tutore delle loro furie. Se sono un veggente passivo o un poliziotto attivo. Chi è veggente spalanca porte, intravede misteri, aggiunge disordini. Chi è poliziotto tappa bocche, lega corpi agitati, intima ordine. Ma non si è mai una cosa soltanto. Si è sempre altro da sé. C’è un’isola borderline tra l’essere troppo liberi o troppo prigionieri, una zona della mente dove avere visioni non significa necessariamente perdere la ragione, un luogo dove, nell’attimo in cui tutto crolla, si sostituiscono a quella distruzione dei paesaggi immaginati ma reali.
Racconti di fate
Durante il mio turno di guardia sento sillabe ripetute, urla stereotipate, cantilene. Niente di drammatico o di poetico. Chi soffre non ha nessuna voglia di rappresentare la sua sofferenza e se ne libera o con una nenia o con un grido. Bisogna rispettarlo. Conosco un ex ingegnere nucleare che, nelle fasi deliranti, si crede un Agente dei Servizi Segreti. È un uomo intelligente, consapevole della sua malattia. In un recente colloquio mi dice di aver scritto dei racconti e mi invita ad entrare nel suo sito web. Lo faccio, incuriosito, sperando di trovarvi qualche suggestiva allucinazione. Invece leggo raccontini che parlano di bambini, fiori, animali, regali natalizi. Cosucce graziose. Per un attimo sorrido, provando pena per quel prodotto mediocre, ma poi me ne vergogno. Un uomo come lui, ossessivamente consapevole della sua sofferenza psichica, non ha nessuna voglia di rappresentarla – e quindi di riviverla – nei suoi racconti. Che invece, nel tentativo di respingerla ai margini dell’io, simula lo stato di grazia di un paradiso infantile. Senza valore per chi frequenta le bellezze della letteratura, ma essenziale per chi percepisce la scrittura come evento psichico. Così, per disinnescare le loro follie violente, Robert Walser scriveva racconti ossequiosi e gentili e Friedrich Hölderlin firmava con il nome di Scardanelli tranquille quartine paesistiche. Solo chi non sta troppo male può ancora parlare del suo inferno. Chi è sprofondato nei sintomi fino al collo ha bisogno di sollievi semplici – musichette, isole dei famosi, racconti di fate. Ricordiamo che Proust non sdegnava le canzoni mediocri, suscettibili di scatenare imprevedibili madeleines.
Mulini a vento
Un giorno cercai di persuadere un uomo di trentasei anni, in preda a un delirio megalomanico in cui credeva di essere Gesù, Budda o Gandhi, a raccontarmi ciò che provava, a scriverne su un taccuino. Lui mi guardò con sospetto, poi disse: Io non scrivo, io sono. Aveva già tracciato, per i giorni a venire, il suo programma: dimostrare di avere ragione contro chi gliela negava, e pagare il prezzo di questa lotta. Il segno più evidente della psicosi è che ogni parola pronunciata non appartiene alla sfera del linguaggio, e tantomeno all’universo della metafora, ma è verità rivelata. Chi si sente messaggero di questa verità guarderà con sospetto sia i funzionari di potere – poliziotti e psichiatri – che lo invitano a tradirsi, sia i compagni di follia che enunciano verità diverse dalla sua. L’uomo di cui parlo ha sofferto per mesi di un’infezione alla gamba sinistra che solo per caso non si è trasformata in cancrena. Per mesi, pur zoppicando, ha negato la realtà di quella ferita. Non lo considerava un problema. Lo avrebbe risolto quando avesse voluto. Poi il dolore è cresciuto; lo ha spinto, suo malgrado, a farsi curare.
Il ‘matto’ intraprende sempre una lotta ostinata contro le convenzioni della sofferenza, del pensiero, della percezione: una lotta grandiosa, destinata al fallimento. L’esagerazione, maniacale e donchisciottesca, è comune, in campi diversi ma contigui, anche all’arte. Se non si esagera lottando con i mulini a vento contro una uniforme pianura noiosa, se non si vive fino in fondo quell’“energia dislocante della poesia” di cui parla René Char, accettare le regole della vita e del linguaggio è solo un debole atto di sottomissione a codici già scritti, una sconfitta umiliante. La speranza nasce quando – parzialmente sani – cerchiamo di sfruttare, tra affanno e pazienza, l’energia vorticosa dei mulini.
Guarigione, scrittura
Francis Ponge scriveva: “Gli uccelli di Braque sono molto più pesanti dell’aria, come sono realmente gli uccelli, ma volano meglio di tutti gli altri perché, come i veri uccelli, partono dal suolo, ridiscendono a nutrirsene e ripartono in volo”. La metafora di Ponge è perfetta per l’arte della scrittura ma anche per la fatica di guarire. Ridiscendere, nutrirsi e ripartire in volo, mi ricorda il compito dei traduttori e degli interpreti, che si confrontano con i dolori e con le opere degli altri. Io, non avendo una vita che potessi dire mia, sono diventato ventriloquo e interprete di vite e follie altrui nelle quali rispecchiarmi e delirare.
Lo chiedo spesso ai miei matti: abbiate cura del vostro delirio. Ma hanno paura. Non sanno orientarsi. Dicono che devono vivere con cautela o saranno travolti dalle loro allucinazioni, confusi, ricoverati, fuori dal mondo, senza diritti. Solo pochi di loro, come il postino Ferdinand Cheval, a Hauterive, hanno rappresentato con ferrea pazienza e ostinata chiarezza il loro delirio costruendo, giorno dopo giorno, pietra dopo pietra, uno stregante e onirico sacrario come il Palais Idéal. Se il folle descritto da Elias Canetti presenta un’atrofia della metamorfosi, l’artista, al contrario, soffre un’ipertrofia della metamorfosi. Coltiva la sua ossessione.
Buio in sala
Se dovessi scegliere un’arte fra le altre, sceglierei il cinema. Il cinema offre lo scenario di una riorganizzazione del mondo attraverso forme in movimento. Lo spettatore, immerso nel buio della sala, si fa invadere dalle immagini che scorrono sullo schermo. Stare nel buio e poter vedere solo quelle immagini nella tela bianca non è il simbolo dell’informe oscurità intrauterina e amniotica, ma la condizione privilegiata di spettatore delle visioni che il regista-demiurgo inocula in lui, grazie al suo stato di temporanea passività. Lo spettatore, nell’oscurità della sala, è in una condizione diversa dal lettore di libri o dallo spettatore di quadri, perché non può distogliersi dall’incantamento che emana dalle immagini dello schermo se non chiudendo gli occhi o tappandosi le orecchie.
Come il folle, a causa delle sue paure e della sua intransigenza, si autonomina demiurgo e organizza in prima persona la realtà degli eventi e la direzione degli affetti, così il regista, stimolato dalle proprie visioni, può costruire un mondo parallelo che si impone allo spettatore non appena nella sala si fa buio. Quando una storia si trasforma in fatto ottico, l’attenzione è assoluta come quando sprofondiamo in un sogno. “Ogni uomo – scrive Bion – deve poter sognare un’esperienza proprio mentre gli capita, sia nel sonno che da sveglio”.
Muro
Muro.
Resto fisso a guardarlo.
Ricordo le parole scritte su quel muro, vicino a una vetrina di libri usati:
Nulla leggo
tutto correggo
il mondo reggo
E se non ci fosse che questo muro?
Se il mio turno di guardia non finisse più?
Se il mio kharma fosse restare per sempre ad attendere che il telefono squilli per parlarmi del destino di un folle?
Abbagliato dal sole che fissava da ore, Taddeo Gaddi non sentì nessuna differenza fra paesaggio illuminato e astro rovente. Il pittore continuò a dipingere e divenne cieco.
–
Nota biobibliografica
Marco Ercolani scrive racconti fantastici e vite immaginarie, si occupa di poesia contemporanea e del nodo arte/follia. Tra i suoi libri di narrativa: Col favore delle tenebre, Vite dettate, Lezioni di eresia, Il mese dopo l’ultimo, Carte false, Il demone accanto, Taala, Il tempo di Perseo, Discorso contro la morte e A schermo nero. Tre i libri di saggi: Fuoricanto, Vertigine e misura e L’opera non perfetta. Cura il volume collettivo Tra follia e salute: l’arte come evento. In coppia con Lucetta Frisa scrive L’atelier e altri racconti, Nodi del cuore, Anime strane e Sento le voci. Nel 2010 ha pubblicato il suo primo libro di versi Il diritto di essere opachi.
È presente in rete con diversi testi e interventi critici. Oltre che su questo blog, suggeriamo il link a “La dimora del tempo sospeso” di Francesco Marotta.
Pingback: Turno di guardia di Marco Ercolani
Villa Dominica Balbinot ha detto:
Coinvolgente da un punto di vista della scrittura, ma anche emotivamente
cristina bove ha detto:
C’è una misteriosa legenda sotto ogni storia umana, si fa evidente quando la follia comincia ad adescare la mente. E prima di arrivare a confondere la moglie con un cappello, si cammina sui bordi di una normalità mai esattamente definita.
Lettura che avvince.
Sara Ferraglia ha detto:
Terribili, angoscianti i temi di questi racconti, scritti con una delicatezza che li alleggerisce, almeno nella forma se non nel contenuto.
“Racconti di fate” è quello che mi è piaciuto di più; si sa, ognuno ha la propria sensibilità.
” Mulini a vento” mi ha fatto pensare al tizio che stamattina in autobus diceva a tutti che lui era Mussolini e che dovevamo comprare i suoi diari in edicola.
Incredibile come lui fosse sereno e tranquillo e gli altri, noi “sani” di mente, tutti agitati e preoccupati di allontanarsi un posto più in là.
Noi, che non passiamo le notti in corsia, ci preoccupiamo per il nostro quieto vivere, di delineare nettamente il confine fra normalità e follia.
Sara Ferraglia
marco ercolani ha detto:
Grazie alle prime lettrici del mio testo. “Turno di guardia” nasce dalle mie reali notti di psichiatra, spesso vissute con ansia a raccogliere parole spezzate e affannate di persone di crisi. Ciò che ho voluto “aggiungere” al puro documento di quelle parole sono state le mie riflessioni private che durante quelle lunghe ore si sono spesso intrecciate alla cronaca – riflessioni legate, e non potrebbe essere diversamente, alle mie letture e alle mie ossessioni.
marco ercolani ha detto:
Una precisazione: nessuno dei brevi capitoli di cui si compone il libro è un “racconto”, nel senso tradizionale del termine, ma piuttosto una “impressione”, una “registrazione” dell’accaduto. In questo senso il libro diventa, forse, più leggero.
margherita ealla ha detto:
Stare di guardia e non in guardia (anzi qui vi è accoglienza), fra sogno e veglia, , “tra affanno e pazienza”, né “troppo liberi o troppo prigionieri”, “ parzialmente sani” cercando “di sfruttare” “ l’energia vorticosa dei mulini”, quindi “ con i mulini a vento”, (e non contro), anche esagerando,
questo guida la scrittura e la visione di Marco Ercolani, di conseguenza guida anche la nostra di lettore nel leggere le sue parole che emergono “in fatto ottico” dullo schermo bianco della pagina (nella visione trasmessa e creata in modo demiurgico sprofonda al buio tutto il resto intorno) .
Quel bellissimo passaggio dell’ esistenza dell“isola borderline: “ zona della mente dove avere visioni non significa necessariamente perdere la ragione”
consente alle domande in finale di post di porsi non solo come domande del singolo che cerca di sbattere il muro per auscultarne il suono (e chiedersi/verificare di che cosa è fatto, e cosa c’è dietro, ecc..) ma come domande enigmatiche, simili a quelle dei testi pervasi da quei sensi sacri-rituali mistici confinanti con la follia visionaria, per es, visto che si parla di mulini queste domande dell’ Atharvaveda: “Come non ristà il vento, non riposa lo spirito? Perché non hanno mai termine le acque tendenti alla verità?…”
(complimenti per il premio! – meritato-)
Un caro saluto, ciao!
marco ercolani ha detto:
Grazie, Margherita! È sempre bello leggere i tuoi commenti. Ed è verissimo il discorso dei/sui mistici. Ne sono affascinato, anche se spesso non li leggo. Ma LORO, dico i miei matti, senza saperlo, mi portano, con i sintomi della loro mente, certe verità sacre che loro stessi non comprendono ma che passano proprio attraverso la follia. Oserei dire: basta che le ciglia siano immobili, che le palpebre non battano, ed ecco la luce che inonda l’occhio senza soluzione di continuità. Con violenza. È la follia, il sacro, l’assoluto. Ciò che non possiamo più controllare con la misura del tempo umano, il battito, il ritmo.
Ciao, Marco
francescomarotta ha detto:
Il nero di luce che si fa inchiostro, semina di un récit interminabile (come in una tela dipinta a misura di “cecità” – laddove la visione a tutto sguardo rimanderebbe soltanto un riflesso sbiadito del vero) , e traghetta germogli d’altrove tra le pieghe e le piaghe di un quotidiano lacerato.
L’incanto di una scrittura che è già altro – anche rispetto al pensiero che guida la mano a definire le coordinate, la sintassi e le linee del disegno.
Grande.
fm
marco ercolani ha detto:
Sì, Francesco. “A misura di cecità”. E aggiungerei: sognare contro il mondo reale usando proprio la realtà: un mio modo bizzarro di delirare.
Grazie, Marco
Anna Maria ha detto:
Due citazioni, per una prosa impeccabile, che altrove, come ne “La repubblica delle parole” si fa soffio-parola, qui rischiara (le zone oscure), lacera (le convenzioni), indica (esiti insospettabili):
So che se fossi pazzo e dopo internato
approfitterei di un momento di lucidità.
Lasciate il mio delirio mio unico martirio
che faccia fuori meglio un dottore, sì un dottore.
Credo che ci guadagnerei come gli agitati
in cella finalmente, lasciato in pace
tutto tace.
(Hommage à Violette Nozières, Area, dall’album “Gli dei se ne vanno, gli arrabbiati restano)
La veduta
Quando la vita usata dell’uomo va lontana
dove – lontano – splende il campo delle viti
vi è anche il campo sgombro dell’estate
e il bosco appare nel suo volto scuro.
Se la Natura integra l’immagine dei tempi,
se lei rimane e quelli sono labili,
è per sua perfezione. Il cielo alto riluce
per l’uomo come i fiori che incoronano l’albero.
Anna Maria ha detto:
Due citazioni, per una prosa impeccabile, che altrove, come ne “La repubblica delle nuvole” si fa soffio-parola, qui rischiara (le zone oscure), lacera (le convenzioni), indica (esiti insospettabili):
So che se fossi pazzo e dopo internato
approfitterei di un momento di lucidità.
Lasciate il mio delirio mio unico martirio
che faccia fuori meglio un dottore, sì un dottore.
Credo che ci guadagnerei come gli agitati
in cella finalmente, lasciato in pace
tutto tace.
(Hommage à Violette Nozières, Area, dall’album del 1978 “Gli dei se ne vanno, gli arrabbiati restano”)
e quella che viene considerata l’ultima poesia di Friedrich Hölderlin, che muore il 7 giugno 1843 e che già dalla fine degli anni ’30 aveva cominciato a firmare le sue poesie con il nome Scardanelli:
La veduta
Quando la vita usata dell’uomo va lontana
dove – lontano – splende il campo delle viti
vi è anche il campo sgombro dell’estate
e il bosco appare nel suo volto scuro.
Se la Natura integra l’immagine dei tempi,
se lei rimane e quelli sono labili,
è per sua perfezione. Il cielo alto riluce
per l’uomo come i fiori che incoronano l’albero.
Con umiltà
Scardanelli
marco ercolani ha detto:
Da Area a Hölderlin, da Hölderlin agli Area, un ottimo “passaggio” nel tempo, è quello che mi piace di più, suscitare cortocircuiti analogici a tema, non dobbiamo mai pentirci di essere persone che immaginano e soffrono, non si consola, non ci si consola (vediamo quello che sta accadendo in questi giorni) ma si prende la parola, la si porta con sé, qualcosa accadrà.
Grazie, Annamaria
Blumy ha detto:
credo che, per essere dei veri medici occorra, prima di tutto, essere grandi uomini; quando il medico non si limita più a curare le ferite del corpo, ma quelle della mente, è una sorta di santo. e un santo che racconta con umiltà, pazienza, affetto, lucidità i propri malati, è , ancora, qualcosa di più.
ho avuto modo di notare che molti medici sono anche scrittori e poeti (Borgna, Azzalin, Lucio Giordano*, i primi tre esempi che mi vengono in mente) e, come Marco, sono di un gradino più su di altri scrittori.
*un poeta che ho conosciuto, anni fa, sul sito Kimerik.
marco ercolani ha detto:
Cara Blumy,
“santità” è una parola eccessiva, almeno nel mio caso. Io userei di più il termine “santa pazienza”, che invece è letteralmente vero. Ciò che occorre, a un terapeuta, per ascoltare l’altro, è anche la pazienza di sentirlo ripetere, anno dopo anno, gli stessi deliri quasi con le stesse parole, nella speranza (assurda ma viva come ogni speranza) che un giorno qualcosa muti di un milionesimo di millimetro. Devo dire anche che mi sento un privilegiato, nonostante la fatica e la frustrazione: soltanto un sacerdote, nel segreto della confessione, può venire a conoscenza di tanti segreti come lo psichiatra.
Ancora una cosa, nei riguardi del testo: ho cercato, per come è potuto, durante tutto il libro (che spero sia presto pubblicato da un editore ligure), di non ripetere gli stessi temi e di non superare, all’interno di una certa storia, le 2 pagine, massimo 3. Anche il lettore va aiutato.
Un caro saluto.
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sandrapalombo ha detto:
Non è facile rendere racconto la propria vita professionale. Si rischia di cadere nel diario o nella cronaca. Le riflessioni del protagonista evitano questo rischio. In fondo tutti cerchiamo la nostra identità perché come scrivi ” non si è mai una cosa soltanto. Si è sempre altro da sé. ” e questo non vale solo per i cosiddetti “matti”, ma anche per i cosiddetti “normali”. Libertà e prigionia sono nella vita di ognuno che è allo stesso tempo poliziotto di se stesso e generatore della propria libertà.
Non sarete Santi, ma fate un mestiere che si avvicina molto alla strada indicata dalla religioni: aiutare il prossimo, ascoltarlo, trasmettere energia positiva.
Credo che il connubio letteratura/professione ti regalerà molte altre soddisfazioni. Complimenti ! Sandra
marco ercolani ha detto:
Lo spero, Sandra, grazie.
Ho sempre detestato il diario e la cronaca quando sono la “ripetizione” del già vissuto, quando non lo trasfigurano e lo sfigurano. Occorre sempre uno “scatto” per parlare di sé, e quindi uscire da sé.
antonella pizzo ha detto:
in questa tua prosa quanto amore si legge nei confronti dei tuoi malati. mi complimento sia per la prosa che per il tuo lavoro. mi rendo conto leggendola di quanto sia sottile il confine fra follia e la normalità e mi viene in mente un antico detto siciliano (che credo esista anche in italiano) a menti è ‘n filu i capiddi 🙂 quel confine che voi del mestiere chiamate borderline, così come è sottile il confine fra la poesia e la mera cronaca/diario. ciao antonella
marco ercolani ha detto:
“a menti è’n filu i capiddi”
neppure Lucetta, che per metà è sicula, sapeva questo detto BELLISSIMO…
d’ora in poi non so se riuscirò a pronunciare la parola borderline senza ricordare questa preziosa non “sottigliezza” ma “sottilità” della mente.
Tutto il mio lavoro, Antonella, è spaccare il capello della salute per trovarci la sorgente della follia e spaccare il capello della follia per trovarci il filo a piombo dello stare qui, nolentes ma con di/speranza, sulla terra.
Ciao e grazie, Marco
Alessandro Ghignoli ha detto:
il lavoro letterario di Marco Ercolani è una scrittura del possibile che nasce dall’impossibile. è oltrepassare il ‘modello’ della letteratura per farne uno proprio; lo scrivere, o meglio il ri-scrivere la realtà vista da un prisma infinito di lenti che si sovrappongono in un labirinto di voci e di sguardi.
quale merito allora al suo dire? quello di lasciarci nella convulsione delle proiezioni geometriche che non arrivano mai a ortogonalizzarsi. Ercolani ci muove nel frammento continuo dei disagi che sono in noi e fuori di noi, così per farci ‘capire’ che la scrittura è il possibile fatto delle cose.
un abbraccio
marinaraccanelli ha detto:
quando si leggono testi così, si scopre come nulla sia scontato , per quanto riguarda la malattia e la salute, la cosiddetta normalità e il suo contrario, le ossessioni e la lucidità mentale, il sentirsi dentro e fuori da sè nel rapportarsi a se stessi ed agli altri… non c’è che da mettersi in ascolto con umiltà di chi, come Marco Ercolani, sta passando la sua vita nell’ascolto, umano e professionale, degli “altri”, che poi siamo tutti noi.
Estremamente intrigante l’intreccio arte-professione medica
marina
marco ercolani ha detto:
Grazie a Marina ed Alessandro. Sì, la mia è una scrittura del possibile che nasce dall’impossibile. D’altronde, anche il lavoro dello psicoterapeuta si confronta sempre con l’inguaribile tentando, in qualche modo, una cura. È di questa cura che mi faccio portavoce, credo. Con le precarie armi della scrittura e del dialogo. Ottenendo, spesso, un’ombra di quello che voglio ottenere. Ma, in certi casi, invece, trovando ciò che non speravo di trovare. Che un paziente, a un corso di scrittura, mi leggesse un brano di Montaigne che non conoscevo, è stata una bella sorpresa. Anche perché c’era una bella aria di “democrazia vera” e di ascolto, non di narcisismo patologico.
Marco
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