Nel 2016 il Ghetto di Venezia compie 500 anni. Una buona occasione per postare questo racconto di Marino Orsoni, scritto nel 2008; per questo motivo appaiono nella narrazione alcune circostanze ormai datate. Naturalmente speriamo che l’incubo prefigurato non si avveri.
1
10 dicembre, lunedì. Erano le nove e quaranta, l’ora di Luigina Penso vedova Tramontin. Puntualissima usciva dal portone della sua casa sul rio di Cannaregio, e se lo chiudeva alle spalle con cura. In fondamenta, quasi di fronte a lei, stava aprendo la solita bancarella di oggetti vari: casalinghi, plastica, fiori… Un mazzetto di margherite, così finte da sembrare false, attrasse il suo sguardo e le fece ricordare l’imminente visita ai finanzieri, le guardie che stazionavano giorno e notte nel ghetto, per dissuadere Bin Laden dal venire fin qui per fare il suo attentato più spettacolare e clamoroso. Venezia, si sa, è il miglior palcoscenico del mondo…
Dal giorno in cui un cervello da novanta si era accorto che la zona frequentata dagli ebrei poteva essere un obiettivo sensibile ottimale, i “ragazzi” in grigioverde avevano fatto le loro prime apparizioni nel Campo del Gheto Novo: due, poi tre, quattro, cinque… Restavano per ore, passeggiando su e giù lungo i masegni, con la testa lì ma il cuore chissà dove, forse alla casa lontana, alla famiglia, alla morosa sperduta in un paesello di quattro anime. Allora li prendeva la nostalgia con la sua morsa ferrea e deliziosa, e loro – specialmente verso sera – estraevano furtivamente il telefonino e chiamavano mamma, papà, sorelle, cognati e soprattutto lei, la ragazza che li riportava al punto di partenza, all’origine del loro mondo, piccolo ma pieno di speranze sottintese. Continua a leggere
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.