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di LORENZO POMPEO

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Una delle esperienze cinematografiche piú interessanti degli ultimi lustri è costituita dal cinema di Andrej Tarkovskij. Il regista, scomparso nel 1986, propose nella sua scarna filmografia uno stile e una sintassi cinematografica del tutto originali, tanto che il suo nome è entrato a pieno diritto nella storia del cinema. La critica ha analizzato il fenomeno con attenzione. Anche per questo non voglio qui ripercorrere la filmografia tarkovskiana. Invece vorrei accennare del rapporto tra il cinema di Andrej Tarkovskij e l’opera del poeta Arsenij Tarkovskij, padre del regista.
La poesia di Arsenij Tarkovskij, da solo una diecina d’anni al centro dell’interesse in Italia (dopo la sua recente scomparsa, avvenuta nel 1989, sono state pubblicate tre raccolte di poesia e una di racconti) rivela fin dal primo approccio una complessa densità.
La sua lirica nasce da un intimo travaglio. Da quella che Gario Zappi, nell’introduzione a Poesie scelte, definisce «profonda crisi esistenziale» scaturisce una meditazione sofferta sull’uomo in relazione al tempo e alla natura, che è popolata da motivi filosofici legati alla tradizione piú alta della poesia russa.
Scorrendo tra i versi di «Pioggia», tratti dalla prima raccolta di Tarkovskij, intitolata Prima della neve, si legge: « … Voglio infondere in una poesia / Tutto questo mondo che muta d’aspetto», oppure, in «L’ospite è una stella», tratta dall’omonima raccolta successiva del poeta russo: «Imparavo dall’erba, aprendo il quaderno / e l’erba come un flauto prendeva a suonare», tanto che vengono in mente i versi di Tjutcev: «La natura non è ciò che voi pensate / Non è un volto cieco, senz’anima; / In lei vi è anima, vi è libertà / Vi è amore, vi è una lingua.»
Proprio alla poesia di Tjutcev, che è la poesia della ricerca della Madre-Natura, primordiale oggetto di culto cosí radicato nella spiritualità russa, sembrano ricollegarsi alcuni passaggi di Arsenij Tarkovskij. L’importanza della figura materna nei versi di quest’ultimo, che Gario Zappi sottolinea nell’introduzione a Poesie scelte, conferma la nostra ipotesi. Anche l’elemento liquido assume nei due poeti la funzione analoga di elemento primordiale. Citerei a proposito i versi di «Sogno sul mare» di Tjutcev: «E il mare in tempesta agitava la nostra barca; / Io, assonnato, mi abbandonavo al capriccio delle onde. / Due infiniti erano dentro di me, / Giocavano con me al loro piacere / … / Io giacevo stordito nel caos dei suoni, / Ma sul caos dei suoni si innalzava il mio sogno. / … / Nell’ardore della febbre creava il suo mondo; / La terra verdeggiava, scintillava l’etere, / Giardini-labirinti, palazzi, colonne, / E brulicava una folla di esseri silenziosi.» In questa poesia di ispirazione romantica (ricordiamo «l’etere» nella poesia di Hölderlin) Tjutcev crea una metafora efficacissima per descrivere la condizione umana: quella della barchetta in un mare in tempesta nel quale la realtà e il sogno creano un paradosso, ovvero l’esistenza di due infiniti.
Tarkovskij, nella sua poesia «E lo sognavo e lo sogno…», scrive: «E lo sognavo, e lo sogno, / e lo sognerò ancora, una volta o l’altra, / e tutto si ripeterà, e tutto si realizzerà, / e sognerete tutto ciò che mi apparve in sogno. // Là, in disparte da noi, in disparte dal mondo / un’onda dietro l’altra si frange sulla riva, / e sull’onda la stella, e l’uomo, e l’uccello, / e il reale e i sogni, e la morte: un’onda dietro l’altra.» Possiamo osservare come di nuovo l’elemento liquido rappresenti anche nella lirica di Tarkovskij l’elemento primordiale (dobbiamo peraltro notare che il verso «un’onda dietro l’altra si frange sulla riva» è una citazione da Lermontov). Come nei versi di Tjutcev, questo elemento liquido viene accostato al sogno e alla fantasia, quasi a voler accennare all’esistenza di una traccia mnesica dell’esistenza prenatale (Zappi parla di «dimensione mnesica della coscienza») che costituisce la matrice della fantasia umana. Può essere suggestivo accostare tale concetto a quanto Massimo Fagioli, noto psichiatra eretico, scriveva nel 1971 in Istinto di morte e conoscenza, e cioè che «alla nascita, l’istinto di morte come fantasia di non esistenza del nuovo sé nato e in rapporto con la luce, conduce alla fantasia di esistenza dell’oggetto intrauterino come immagine di esso. Come ricordo o traccia mnesica. Inconscio mare calmo.»
Intanto forse proprio qui possiamo mettere in luce un primo nesso tra la poetica di Tarkovskij padre e la sintassi cinematografica del figlio, soprattutto per quanto riguarda le ricorrenti inquadrature di superfici liquide e di vasche attraversate dai personaggi.
L’uomo nelle liriche tarkovskiane è parte del cosmo proprio come l’uomo delle liriche di Tjutcev. Tuttavia, a differenza di quest’ultimo, Tarkovskij, soprattutto nelle sue raccolte piú tarde, prende atto di una lacerazione irrimediabile tra l’uomo e la natura che dà vita a un nuovo contrasto dialettico. L’alta dignità dell’uomo, la sua capacità profetica sono l’espressione piú alta di questa dimensione tutta umana. L’elemento drammatico, di altissima intensità in alcune liriche tarkovskiane, nasce proprio dal contrasto, spesso rappresentato con l’elemento igneo, tra la condizione umana e la natura, tra l’anima e il corpo. Tuttavia questi due elementi sono considerati inscindibili, come fossero due poli della condizione umana.
Anche in Tjutcev esisteva un elemento drammatico, allorché l’uomo si trovava da solo di fronte al caos: «E l’uomo, come un orfano senza casa / Sta ora, impotente e nudo, / Faccia a faccia col tenebroso abisso.» Tuttavia la parola di questi versi che ci offre una possibile chiave interpretativa è orfano, quasi che il poeta voglia accennare alla minaccia di una perdita dell’affetto materno. Tarkovskij, invece, nella sua poesia citata «E lo sognavo e lo sogno…» scrive: «Solo, come orfano, pongo me stesso, / solo, fra gli specchi, nella rete dei riflessi / di mari e città risplendenti tra il fumo. / E la madre in lacrime si pone il bambino sulle ginocchia,» Ecco che l’orfano, denotando un’avvenuta separazione dalla figura materna e ponendosi in contrasto con la sua immagine, esprime il dramma di un’avvenuta lacerazione. La madre, presenza spesso rievocata nelle liriche di Tarkovskij, ha una precisa funzione, ovvero denotare un «paradiso perduto» e ormai irraggiungibile: «Mia madre è venuta, mi ha fatto un cenno con la mano: / ed è volata via» («Da bimbo m’ammalai»).
Alcuni spunti della poesia di Tarkovskij che riguardano lo stretto rapporto tra l’uomo e il cosmo, alcune riflessioni sul tempo e sull’eternità ci ricordano gli accenti piú filosofici e meditativi della poesia di Zabolockij, poeta legato alla breve stagione del gruppo d’avanguardia pietroburghese «Oberju» e successivamente internato nei gulag staliniani. Infatti, a proposito di quest’ultimo, spesso erroneamente considerato troppo semplicisticamente «poeta dell’avanguardia», Efim Etkind, in un suo saggio, scrive: «I trent’anni di creazione di Zabolockij sono la ricerca di una lingua nuova per la lirica filosofica.» Tarkovskij dedicò al suo collega, quasi coetaneo (era piú giovane di lui di soli quattro anni), «La tomba del poeta», poesia scritta in occasione dei suoi funerali, in cui si legge: «Non uomo sei, ma cranio del secolo tuo, / ne sei la fronte, la lingua e l’ottone.»
Ancora, quando Zabolockij scrive nella seconda parte del poema Il lupo folle, del 1931: «Chi ha visto brillare le stelle, / chi ha potuto parlare con le piante / chi ha capito il terribile insieme dei pensieri, / non ha paura della morte, non ha paura della terra / … / Passano i secoli, passano gli anni, / ma tutto ciò che vive non è un sogno: / vive e va al di là / della legge della verità di ieri» tornano in mente i versi di «Vita, vita» di Tarkovskij: «Tutti sono immortali. Tutto è immortale / non bisogna temere la morte né a diciassette anni / né a settanta. Esistono soltanto la realtà e la luce.» Nella poesia di Zabolockij, come in quella di Tarkovskij, l’uomo è parte del cosmo e della sua caotica armonia. Tuttavia lo stile austero della poesia di Tarkovskij si contrappone a quella girandola di invenzioni e immagini pirotecniche che caratterizzano soprattutto la prima raccolta di Zabolockij Stolbcy, piú legata ai moduli stilistici dell’avanguardia. Al contrario, la parola, nei versi tarkovskiani, possiede sempre un referente oggettivo e concreto («Pensate al Macedone o a Puskin, e provatevi / a non chiamarli Alessandro»); questo anche per quanto riguarda termini come verità, («nella parola verità mi appariva / la verità in persona» («Imparavo dall’erba…»).
Tuttavia, secondo il poeta, nemmeno il linguaggio è in grado di descrivere la verità dell’io attraverso una correlazione oggettiva: « … quando noi moriamo, / ci accorgiamo di non aver scritto / neppure mezza parola su noi stessi / e quel che prima credevamo che noi fossimo / estraneo ormai gira, quietamente / sfuggendo ogni confronto, e ormai / noi stessi in sé piú non racchiude» (Epigrafi puskiniane). Il poeta non cerca vie di fuga nei confronti del tragico destino umano: nella classica severità delle forme egli non sa trovare alcuna consolazione circa la lacerazione di cui dicevamo.
Per questo i versi di Tarkovskij sono spesso percorsi da una nota tragica, che deriva proprio dal contrasto tra la bellezza della natura e la dolente condizione umana, di cui il fuoco è la misura dell’intensità: «A voi che viveste prima di me sulla terra, / a voi, mia corazza e parentela di sangue / da Alighieri a Schiapparelli: / grazie, voi ardeste bene. // Ma forse io non ardo bene, / e forse con l’indifferenza io condanno / voi, per i quali a lungo vissi sulla terra, / erba, stelle, farfalle, bambini.» Infatti in una indimenticabile sequenza finale del film Nostalghia Domenico, il personaggio del vagabondo folle, si dà fuoco sulla statua equestre nella piazza del Campidoglio.
La parola non riduce il contrasto tra l’uomo e la natura, tra l’anima e il corpo, tema ricorrente nelle liriche tarkovskiane, ma semplicemente lo esprime. La dialettica tra il limite, la fragilità, l’impotenza da una parte e la dignità umana e la sua libera determinazione dall’altra rappresenta nell’universo poetico tarkovskiano il mistero della condizione umana. Il poeta, tra il corpo e l’anima, non sceglie né l’uno né l’altra: «Senza il corpo l’anima sta male, / come il corpo senza la camicia: / né progetti né imprese, / né pensieri né versi. / Enigma senza soluzione.»
In particolare mi vorrei soffermare su una delle citate poesie di Tarkovskij che qui riporto per intero:

«E lo sognavo, e lo sogno,
e lo sognerò ancora, una volta o l’altra,
e tutto si ripeterà, e tutto si realizzerà,
e sognerete tutto ciò che mi apparve in sogno.

Là, in disparte da noi, in disparte dal mondo
un’onda dietro l’altra si frange sulla riva,
e sull’onda la stella, e l’uomo, e l’uccello,
e il reale, e i sogni, e la morte: un’onda dietro l’altra.

Non mi occorrono le date: io ero, e sono e sarò.
La vita è la meraviglia delle meraviglie, e sulle ginocchia della meraviglia
solo, come orfano, pongo me stesso

solo, fra gli specchi, nella rete dei riflessi
di mari e città risplendenti tra il fumo.
E la madre in lacrime si pone il bimbo sulle ginocchia.»

La prima quartina della poesia illustra molto bene una concezione del tempo caratteristica del poeta («E lo sognavo, e lo sogno, / e lo sognerò ancora, una volta o l’altra»). Una concezione di un tempo assoluto, al di fuori della contingenza, ma che, come vedremo in seguito, la contiene («e sull’onda la stella, e l’uomo, e l’uccello, / e il reale, e i sogni, e la morte: un’onda dietro l’altra»). È l’idea-immagine di un tempo «mitico» nel quale sogno e realtà sono fusi. Il riferimento al primo anno di vita è evidenziato dall’accenno del rapporto dialettico tra il bimbo e il volto della madre («E la madre in lacrime si pone il bimbo sulle ginocchia») che ci ricorda l’atteggiamento materno di talune Madonne di Leonardo. E infatti proprio nel film Lo specchio il regista inserisce lunghe inquadrature di alcuni quadri di Leonardo (Madonna col bambino e Sant’Anna, Vergine delle rocce e Ritratto di Ginevra Benci).
Possiamo sottolineare quindi come nelle liriche del poeta il tempo venga proiettato in una dimensione irreale, assoluta ma oggettiva allo stesso tempo, quello delle tragedie greche, in cui ogni istante è racchiuso in un arco che unisce la vita e la morte: in esso ogni istante possiede una sua necessità e un suo significato intrinseco.

La concezione del tempo, elemento fondamentale della poetica dei film del regista, riprende chiaramente questa concezione. I lunghissimi piani-sequenza, che caratterizzano la sua cifra stilistica, vogliono rappresentare proprio questo: egli minimizza la funzione del montaggio per mettere in evidenza un significato intrinseco delle immagini in relazione al tempo reale. Alcune scene, per sottolineare la loro importanza, vengono addirittura rallentate. «L’immagine non è questo o quel significato espresso dal regista, bensí un mondo intero che si riflette in una goccia d’acqua, in una goccia d’acqua soltanto», dichiarava il regista sulla sua poetica, in polemica con la retorica e i dettami del realismo socialista. Tuttavia la poetica del regista russo si contrappone anche a gran parte del cinema hollywoodiano, in cui il montaggio ha un ruolo fondamentale. A una struttura filmica sintetica, Tarkovskij contrappone una struttura analitica. «La dominante assoluta dell’immagine cinematografica è costituita dal ritmo che esprime lo scorrere del tempo all’interno dell’inquadratura. Il fatto poi che questo stesso scorrere del tempo venga rivelato anche dal comportamento dei personaggi, dai trattamenti figurativi e dai suoni, tutto ciò costituisce una serie di componenti collaterali che, ragionando dal punto di vista teorico, possono essere del tutto assenti e, cionondimeno, l’opera cinematografica esisterebbe lo stesso», diceva il regista. Il presente e il passato si possono fondere in una dimensione che li comprenda entrambi. Scriveva il poeta, nella citata poesia intitolata «Vita, vita» e letta nel film Lo specchio: «Ai presentimenti non credo e i presagi / non temo. Né calunnie né veleni / io fuggo. Sulla terra non esiste la morte. / Tutti siamo immortali. Tutto è immortale. / … / C’è solo realtà e luce.» In questi versi è, a mio avviso, evidente il legame con la concezione filmica illustrata dalle citazioni del regista qui riportate.
Per quanto riguarda quella idea-immagine di un tempo «mitico» (cosí lo definisce Costanzo Antermite) nel quale sogno e realtà sono fusi insieme, e di cui parlavamo a proposito del poeta, i riferimenti nella cinematografia tarkovskiana sono continui; nel film Solaris, tratto dall’omonimo romanzo di Stanislaw Lem, un importante autore polacco di fantascienza, si fa riferimento a un pianeta ricoperto da un oceano in grado di dar forma alle fantasie degli scienziati mandati sul luogo per esplorare il pianeta. Il tema dell’emergenza dell’inconscio è chiaramente esplicitato. Il tema dell’incontro con l’alieno, con l’altro, e insieme il tema della scoperta del pianeta vengono genialmente fusi dallo scrittore nell’immagine dell’oceano pensante. La condizione di isolamento in cui si trova la stazione degli scienziati evidenzia già la difficoltà di rapportare le immagini suggerite dall’oceano alla realtà materiale. La difficoltà che il protagonista del film, Kelvin, dovrà affrontare sarà quella di distinguere tra sogno e realtà, e piú profondamente quella di comprendere le dinamiche inconsce.
In un’inquadratura del film, Kelvin, attraverso i vetri bagnati della finestra, osserva il padre muoversi tranquillo nel suo ambiente; una leggera pioggia gli bagna le spalle, ma lui continua ad affaccendarsi senza accorgersene (ricordiamo, per inciso, che tale episodio non è nel romanzo, ma solo nel film). Il riferimento al padre richiama chiaramente il problema edipico. L’incapacità di comprendere le dinamiche inconsce è rappresentata dall’immagine della moglie suicida, che indica proprio l’impossibilità di sciogliere il nodo edipico: l’indifferenza del padre condanna Edipo alla cecità, la moglie suicida è Giocasta.
Il film successivo, Lo specchio, è un’opera fondamentale sia per quanto riguarda la poetica del regista, sia per quanto riguarda la storia del cinema russo. In quest’opera infatti non vi sono moduli stilistici di carattere epico e retorico, tipici di molta cinematografia sovietica. Vi è una svolta radicale anche rispetto alla precedente produzione del regista. In questo film egli è riuscito a esprimere i caratteri di una cinematografia del tutto originale.
Il tema del film è chiaramente legato ai ricordi autobiografici della sua infanzia; la complessa struttura dell’opera è basata su un gioco di riflessi tra i vari personaggi: la madre del protagonista diventerà sua moglie (nel film la stessa attrice interpreta i due ruoli) e nel protagonista bambino si riflette suo figlio (possiamo peraltro notare come compaia ancora una volta il riferimento edipico).
Il tema dell’assenza del padre è un elemento fondamentale del film. Scrive a proposito Vincenzo Camerino: «L’integrale impalcatura dell’opera viene elevata nel segno della Madre-Natura e nell’“assenza” del padre.»
Il film doveva intitolarsi inizialmente Una bianca, bianca giornata, titolo di una lirica del padre a cui il regista fa riferimento nella scena finale:

«Sta una pietra presso il gelsomino.
Un tesoro c’è sotto la pietra.
Mio padre è sul sentiero.
È una bianca, bianca giornata.

Il pioppo d’argento è in fiore,
la centifoglia e dietro a lei
le rose rampicanti,
l’erba lattescente.

Non sono mai stato
piú felice di allora.

Là non si può ritornare
e neppure raccontare
com’era colmo di beatitudine
quel giardino di paradiso.»

L’ultima inquadratura del film è il campo di grano saraceno in fiore che si riferisce all’«erba lattescente» della poesia. La tematica del film, incentrata sul rapporto con la madre (che diventa anche la «terra-madre russa» attraverso i riferimenti storici), è legata in maniera evidente a questa lirica. Proprio in questo film compaiono per la prima volta quelle superfici bagnate, quelle stanze in penombra, che sostanziano lo stile inconfondibile del regista dal punto di vista iconologico: evidente il riferimento alla regressione nell’utero materno.
Nelle fasi iniziali del film, è citata una bella poesia intitolata «Primi incontri»:

«Dei nostri incontri ogni momento noi
festeggiavamo come epifania,
soli nell’universo tutto. Tu
piú ardita e lieve di un battito d’ala
su per la scala, come un capogiro
volavi sulla soglia, conducendomi
tra l’umido lillà, dentro il tuo regno
che sta dall’altra parte dello specchio.

Quando scesa la notte, a me la grazia
fu elargita, le porte dell’altare
si aprirono, nel buio prese luce
e lenta si chinò la tua nudità.

Sulla terra tutto fu trasfigurato,
anche le cose semplici – il catino,
la brocca – e tra noi di sentinella
stava l’acqua dura e stratiforme.

Chissà dove fummo sospinti,
dinanzi a noi s’aprivano miraggi
di città costruite per prodigio,
solo la menta si stendeva sotto i piedi
gli uccelli erano compagni di viaggio
i pesci balzavano dal fiume
il cielo si dispiegava ai nostri occhi…

Quando il destino seguiva i nostri passi
come un pazzo con il rasoio in mano.»

A questa poesia segue l’immagine della madre che guarda un fienile che prende fuoco, dando forma alla tematica del desiderio svolta nella poesia: il desiderio che, quando non è delimitato dall’immagine della nascita, distrugge l’identità. Segue l’immagine della donna che si lava i capelli in un catino: i capelli coprono il suo volto mentre la mano del padre gli versa l’acqua. L’immagine potrebbe legarsi all’immagine precedente, quella dell’incendio, segnalando la perdita momentanea dell’identità e della figura nel regresso all’utero materno. A questa scena poetica segue una scossa e l’intonaco si stacca dalle mura della stanza (l’orgasmo?). Si evidenzia quindi un legame coerente tra i versi del padre e le immagini del figlio.

Il film successivo, Stalker, la cui sceneggiatura fu scritta da celebri autori di fantascienza sovietica, i fratelli Boris e Arkadij Strugackij, sulla base del loro romanzo Picnic sul ciglio della strada (trad. it. Mondadori: Stalker), è uno degli episodi piú complessi della cinematografia tarkovskiana. Nel film tre personaggi tentano di penetrare in una area recintata, chiamata «la zona», cui l’accesso è vietato; in questa zona si dice si trovi una stanza nella quale si possono avverare i piú reconditi desideri. Le inquadrature del percorso compiuto dai tre protagonisti del film per arrivare all’ingresso della «stanza» sono girate in parte in uno spazio aperto, ma successivamente la macchina da presa entra in un lungo cunicolo dove scorre un rivolo d’acqua, a mio avviso simbolo evidente di quella sorta di regressione nell’utero materno di cui parlavamo in relazione al precedente film. Ed ecco il nesso con quanto, nell’introduzione a Poesie scelte, scrive Gario Zappi sulla poesia di Arsenij Tarkovskij: «Il desiderio di trovare un compensativo allo stato di fratturazione interiore e un eventuale cauterio, induce il poeta a intraprendere un lungo viaggio verso il mondo ctonio delle Madri. Lo scandaglio della propria natura e di quella degli oggetti circostanti, l’approfondimento dell’autocoscienza, fanno sí che il poeta, all’inseguimento delle proprie visioni, tenti di varcare le soglie di quel mondo-altro.» Quanto ha scritto Zappi rispetto alle poesie del padre potrebbe fornirci la chiave interpretativa di questo film. Infatti i tre protagonisti del film, a mio avviso, tentano anch’essi di superare quella soglia che separa il mondo dei sogni dalla realtà, ovvero ricercano quella chiave che gli permetterebbe di entrare nella «zona» piú recondita dell’io; ma la ricerca non approda a nulla e, nelle ultime inquadrature del film, i tre personaggi arrivano alle soglie della «stanza» senza riuscire ad entrarvi. Ecco che il tentativo del superamento della posizione di profetica attesa, che i versi del poeta esprimono, si conclude con un fallimento e con un nulla di fatto, cosa di cui il regista prenderà atto negli ultimi due film, Nostalghia e Sacrificio, poco prima della sua scomparsa.

 


 

Di Arsenij Tarkovskij possono trovarsi diverse opere in edizione italiana. I brani «E lo sognavo e lo sogno…» e «Da bimbo m’ammalai» sono tratti da Poesie scelte, Scheiwiller, Milano 1989, a cura di Gario Zappi. «Prima della neve», «L’ospite è una stella», «La tomba del poeta», «Vita, vita», Epigrafi puskiniane, «Una bianca, bianca giornata» e «Primi incontri» sono tratti da Poesie e racconti, Tracce, Pescara 1991, a cura di Paola Pedicone.
Il brano dell’intervista ad Andrej Tarkovskij si trova nel volume
Scolpire il tempo, Ubulibri, Roma 1988, a cura di Vittorio Nadai.
Per ulteriori letture si suggeriscono i seguenti libri: F. I. T
JUTCEV, , Ubulibri, Roma 1988, a cura di Vittorio Nadai.
Per ulteriori letture si suggeriscono i seguenti libri: F. I. TJUTCEV, ASSIMO FAGIOLI, FIM ETKIND, «Nikolaj Zabolockij», in TANISLAW LEM,
, Poesie, Rizzoli, Milano 1993, p. 197, a cura di Eridano Bazzarelli («Sogno sul mare»); MIstinto di morte e conoscenza, Nuove Edizioni Romane, Roma 1972; EStoria della letteratura russa, Einaudi, Torino 1990, «Il Novecento», vol. II; CAndrej Tarkovskij, le ragioni della poesia, Capone Editore, s.l.p. 1987, a cura di Vincenzo Camerino; SSolaris, Mondadori, Milano 1982; A, Stalker, Mondadori, Milano 1988., Rizzoli, Milano 1993, p. 197, a cura di Eridano Bazzarelli («Sogno sul mare»); M, , Nuove Edizioni Romane, Roma 1972; E, «Nikolaj Zabolockij», in OSTANZO ANTERMITE, «Poetica ed estetica in Tarkovskij» e VINCENZO CAMERINO, «La rivoluzionaria e poetica ragione dell’altro specchio-desiderio», in AA.VV., , «La rivoluzionaria e poetica ragione dell’altro specchio-desiderio», in AA.VV., , Capone Editore, s.l.p. 1987, a cura di Vincenzo Camerino; S, RKADIJ STRUGACKIJ – BORIS STRUGACKIJ, Stalker, Mondadori, Milano 1988.

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