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Adrian Henri, albatro, Bernardino Nera, Brian Patten, Floriana Marinzuli, Liverpool, Poesia, Prosa, Roger McGough, Viviana Scarinci
“In pubblico la poesia dovrebbe spogliarsi dei vestiti e salutare la persona più vicina; (…) Alla vista dei matematici dovrebbe sganciare l’algebra dalle loro menti e rimpiazzarla con la poesia; alla vista dei poeti dovrebbe sganciare la poesia dalle loro menti e rimpiazzarla con l’algebra; dovrebbe toccare chi non sopporta di essere toccato, dovrebbe innamorarsi dei bambini e corteggiarli con le fiabe; per due anni dovrebbe aspettare sul pianerottolo il ritorno a casa dei suoi compagni poi uscire fuori e trovarli tutti morti ” (1)
Sono rimasta piacevolmente sorpresa di trovare sul numero di Dicembre di Poesia, un articolo molto interessante completamente dedicato a Brian Patten e all’esperienza dei poeti di Liverpool. Nell’articolo si indicano precisamente le vicissitudini familiari e sociali che nella prima parte della vita di Patten per sua stessa ammissione, hanno avuto, più di una formazione classica, un ruolo chiave in quello che sarà il futuro del suo intendere la poesia. L’esperienza di Liverpool coinvolge altri due poeti, Roger McGough e Adrian Henri, nel decennio tra gli anni 1960 e 70. “Uno degli aspetti socio-culturali più rilevanti emersi da quella cultura giovanilistica si manifestò nell’orgoglio e nel senso di appartenenza a una specifica area territoriale, in difesa di un’identità culturale esclusiva, aggredita dall’omologazione ai valori standardizzati e omogeneizzati (oggi si direbbe globalizzati) cui si stavano uniformando i Paesi più industrializzati del mondo occidentale” (2). In questo senso, la sopravvivenza poetica ad oggi dell’esperienza di Liverpool, testimonia il localismo prendere un valore diverso rispetto a quello restrittivo che si è abituati ad attribuire ad esso, e lo prende grazie all’afflato performativo di tre poeti, che segnano col loro incontro anche la labilità del confine tra poesia e prosa, quando la scrittura poetica diventa un veicolo il cui il primo fine è darsi, in senso liberatorio ma non avulso dall’esistenza che per definizione è un fatto condiviso. Il momento performativo, carico dell’esperienza quotidiana da cui proviene, diventa un fulcro formidabile per quell’atto in cui viene impegnata artisticamente l’esperienza, la eleva con un moto effimero e istintivo che evidenzia il rapporto ininterrotto concernente poesia e vita. L’effimero prende la valenza opposta del suo significato più facile, cioè quello che lo impronta alla dissolvenza, diventa il lampo del tutto realistico che altrimenti la fissità della scrittura può stanziare in una cifra priva di realtà. Il poeta trova nella lingua data in questo modo, lo slancio che si dice all’altro attraverso un territorio privo di demarcazioni, in cui l’inarginato o la misura naturale che lo contraddistingue ritmano in senso vitale il suo racconto. Come per la danza, l’effimero gioca un ruolo essenziale a cui difficilmente si accorda diritto: concordare col darsi la sua sparizione, la sparizione che nel ricordo ricreerebbe paesaggi inadeguati e che nella riscrittura ne farebbe un’esperienza già mutata. L’incontro poetico, dunque, non esiste che lungo un tempo che lasci certi di un accaduto ineffabile, certi di aver assistito a quel solvere e coagulare che di continuo rende l’uomo un animale poetico, e col suo prossimo, passibile di similitudini impreviste.
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Non lo voglio un albatro, non voglio quest’uccello,
devo incontrare una persona,
una persona paziente, buona e sana,
una persona con mani calde e col sorriso
che fa balbettare a dire sì.
Non voglio che questa persona amica veda l’albatro.
Lui divorerebbe quei sorrisi,
metterebbe alla prova quella pazienza,
beccherebbe quelle mani
fino a farle diventare sgradevoli e decrepite (3)
- Brian Patten, Prose Poem towards a Definition of Itself, trad. B. Nera e F. Marinzuli
- Bernardino Nera e Floriana Marinzuli, Poesia 225, Anno XXIII, Dicembre 2010, p. 28
- Brian Patten, Albatross Ramble, trad. B. Nera e F. Marinzuli
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neobar ha detto:
Grazie a Viviana per questo articolo molto interessante. Vorrei aggiungere che Patten ha scritto anche poesie d’amore (quando l’amore finisce, soprattutto), alcune delle quali raccolte in ‘Love Poems’ (1981). Non so se il libro è stato tradotto in italiano, ne riporto una tra le mie preferite:
I caught a train that passed the town where you lived.
I caught a train that passed the town where you lived.
On the journey I thought of you.
One evening when the park was soaking
You hid beneath trees, and all round you dimmed itself
As if the earth were lit by gaslight.
O planet-face!
I can still smell the forest in your neck,
Still taste the wine of your mouth,
And your kisses that fell onto my skin like rain
Still shiver there!
We had faith that love would last forever.
I caught a train that passed the town where you lived.
margherita ealla ha detto:
grazie Viviana per il post; come Abele l’ho trovato molto interessante.
mi piace molto questo passaggio “… la poesia….dovrebbe toccare chi non sopporta di essere toccato”
(beh, ad essere sincera, anche quello relativo alla vista dei matematici ..:))
interessante anche come la poesia proposta tratta il topos dell’albatro.
bella anche la poesia proposta da Abele (per quanto sono riuscita a tradurla :))
ciao!
vivianascarinci ha detto:
Grazie Abele e Margherita. Credo che la grazia e la contraddizione della poesia di Patten non sia possibile esprimerla tutta con parole. La si vede bene però durante le sue letture pubbliche (qualcosa si trova su youTube). Il mio breve intervento voleva significare un po’ questa “volatilità” dentro la cosa amorosa, di cui la poesia di Patten spesso riesce a sanare le contraddizioni. La poesia riportata da Abele poi non fa che confermarmi in quell’idea. (Bello sarebbe, Abele, se ce ne offrissi una traduzione).
Grazie Margherita, scorrevo il tuo articolo di sopra. Di tutto ciò non so nulla. Leggerò con interesse anche su neobar. Sono aperture preziose.
Un caro saluto.
v
neobar ha detto:
Ciao Viviana e Margherita, ecco una mia traduzione della poesia che avevo proposto:
Ho preso un treno che passava dalla città dove abitavi
Ho preso un treno che passava dalla città dove abitavi.
Durante il viaggio pensavo a te.
Una sera che il parco era fradicio
ti nascondevi sotto agli alberi, e tutto intorno si attenuava
come se la terra fosse illuminata da una lampada a gas.
O viso celeste!
Sento ancora la foresta sul tuo collo
e il vino della tua bocca,
e i baci che cadevano sulla mia pelle come la pioggia
e sono a trepidare ancora lì!
Eravamo fiduciosi che l’amore durasse per sempre.
Ho preso un treno che passava dalla città dove abitavi.
vivianascarinci ha detto:
Abele, davvero grazie del tuo intervento che arricchisce molto il post su Patten. Questa poesia che presenti è bella come una canzone, ha una musica immediata, e un luogo riconoscibile malgrado il passaggio dolceamaro del treno. Petten sembra cantare che il per sempre è dei luoghi, non delle persone. Il sempre ha a che fare con la memoria dei luoghi (se preservata) più che con i corpi. Un po’ mi fa tornare a quel localismo che accennavo nel mio scritto come forza misconosciuta in tempi di globalizzazione, ma ancora in campo.
Ti abbraccio
v
neobar ha detto:
Un abbraccio e di nuovo grazie a te, Viviana. Molto bella questa tua lettura sulla memoria dei luoghi. Intanto ho ripreso a leggere Patten… 🙂
Abele
antonella pizzo ha detto:
Non conosco Patten e quindi grazie Viviana per averne parlato e a Abele per la poesia e traduzione. L’effimero e il localismo mi pare siano questi i due punti della poetica di Patten, anche se quest’effimero mi sfugge. un caro saluto da antonella
margherita ealla ha detto:
Ringrazio anch’io Abele per la traduzione, preziosa per gustare appieno la poesia! (la mia estemporanea, come il mio inglese del resto, faceva proprio pena :))
Ciao a tutti e grazie ancora a Viviana
vivianascarinci ha detto:
Mah, l’effimero in Patten più che nella poetica l’ho visto nell’esperienza che lo fa parlare poeticamente piuttosto che scrivere su un foglio. Patten sembra abbia cominciato giovanissimo più col dire che con lo scrivere poesia, convinto forse non da troppe letture ma da un luogo, un locale di Liverpool in cui altra gente si esibiva. Lì è rimasto per parecchio tempo e lì è diventato famoso. A me sembra tuttora una scrittura che risente del primo approccio parlato ossia di una parola che viene dalla realtà ma portata in dissolvenza, come appunto quella di una canzone. Non è un caso che poi lui sia diventato anche un importante scrittore di favole per bambini, che non hanno niente di effimero tuttavia contano spesso, più che sulla trama, sull’approccio suadente dei toni. Ma sono opinioni chiaramente …
Questo è il suo verdissimo sito http://www.brianpatten.co.uk/ ci sono parecchie letture, nonché ogni mese, la poesia del mese.
Un abbraccio a Antonella e Margherita.
paola lovisolo (cara polvere) ha detto:
un’ ottima proposta, Viviana che ha ispirato ottimi commenti ed è una cosa che fa piacere. si sentono i vasi comunicare, ecco.:)
non conoscevo questo autore del quale qui trascrivi questi versi che sembrano fare la summa essenziale della sua poetica espressa in quel per sempre che non è un infinito ma un finito in divenire ossia “di una volta sola” come ogni accadimento umano appunto “il lampo” e l’ eco dell’ alone che poi dissolve se vogliamo paradossalmente in storia nel giro del suo errare in un cerchio d’ innumerevoli lampi/lati in una sorta di rilucere al coperto=sidereo-cielo – volta e via così.
intensatrice e condensatrice di stimoli alla riflessione il tuo miratissimo congegno di parole: “concordare con darsi la sua sparizione” che a me non so perché mi fa venire in mente il vuoto che non è inesistente ma esiste del pieno e resiste nella sua dimensione come il reale delle realtà: così un po’ da la sensazione la lettura di questi versi e cioè dello sparire per rimanere… e qui forse si chiamano a raccolta le pagine meravigliose del Tao Tê Ching. e io forse sono maldestra nello scrivere quello che mi resta dopo la lettura anzi riscrivere dal pensiero a qui e lo so che rischio un fuori tema.
grazie.
un saluto.
paola
ps: non so se faccio cosa gradita ma riporto l’intero testo poetico de:
“L’albatro errante”
Al mio risveglio stamattina ho trovato un albatro a scrutarmi fisso.
Buffo, ieri sera non c’era.
Ieri sera ero da solo.
L’albatro se ne stava sul letto
Le lenzuola erano fradice.
Vivo a miglia di distanza dalle coste.
Non ho invitato marinai pazzi a casa.
Non ho sognato oceani.
L’uccello è vivo, mi guarda attento.
Lo guardo attento.
Per qualche motivo particolare penso
che forse ci meritiamo l’un l’altro.
Fuori c’è il sole, è primavera.
Il cielo è luminoso, è vivo.
Ricordo che devo incontrare una persona,
una persona serena, con la quale sono tranquillo,
una persona che fa brillare le cose.
Come indosso il cappotto per uscire
penso che, tutto sommato,
non merito quest’uccello.
Gli albatri sono una croce al collo.
Non so cosa farmene.
Non posso consegnarli allo zoo.
I custodi ne hanno gà abbastanza.
Non c’è proprio nessuno disposto a portarmelo via.
Forse, penso, l’uccello è nella casa sbagliata.
Forse voleva andare alla porta accanto.
Forse alla porta a fianco ci vive un marinaio.
Forse appartiene all’uomo del piano di sopra.
Forse appartiene alle ragazze del seminterrato.
A qualcuno deve appartenere.
Mi precipito verso l’androne e grido:
“C’è qualcuno che ha un albatro? Qualcuno lo ha perso?
C’è un albatro in camera mia!”
Mi trovo in un silenzio imbarazzante.
So che l’uomo del piano di sopra non è felice.
E che le ragazze del seminterrato vagano perdute tra i mobili.
Forse stanno cercando di sbarazzarsene e non lo vogliono ammettere.
Forse l’hanno rifilato a me.
Non lo voglio un albatro, non voglio quest’uccello,
devo incontrare una persona,
una persona paziente, buona e sana,
una persona con le mani calde e col sorriso
che fa balbettare e dire sì.
Non voglio che questa persona amica veda l’albatro.
Lui divorerebbe quei sorrisi,
metterebbe alla prova quella pazienza,
beccherebbe quelle mani
fino a farle diventare sgradevoli e decrepite.
Sebbene abbia fatto delle trappole per l’albatro,
sebbene l’abbia cosparso di colla,
sebbene gli abbia servito tutti i veleni possibili,
continua ancora a vivere,
quest’uccello ha delle strane ombre
ha proiettato il buio dappertutto.
Se esco non fa che venirmi dietro.
Si siede affianco a me sull’autobus,
scrutando torvo i passeggeri.
Se lo portassi al parco darebbe solo fastidio alle anatre,
tormenterebbe le coppie sulle barche a remi,
direbbe agli alberi che è inverno.
I poliziotti lo accarezzerebbero chiedendo cortesi:
“Ha una licenza per albatri?”
Uccello sventurato, uccello malaugurato,
non ci posso far niente.
Non ci sono sterminatori di albatri sull’elenco;
ho cercato per ore.
Forse rimarrà con me tutta l’estate;
forse non ha intenzione di andarsene.
Sono ossessionato da quest’uccello che non vorrà mai andar via,
quest’uccello alieno al mio fianco tutto il tempo.
E adesso quel qualcuno sta bussando alla porta,
meno paziente, accigliato,
un pò triste e nervoso.
Siederò dietro a questa porta e farò i versi come fossi un albatro.
Stridi terribili.
Metterò la bocca sulla serratura e mi lagnerò-lamenti d’albatro.
Quel qualcuno capirà allora che ho un albatro in camera.
Mi capirà,
e se ne andrà sapendo
che non è colpa mia se non ho potuto aprire la porta.
Aspetterò qui, devo escogitare un piano,
è primavera e tutto è bello a parte questo.
Stamattina mi sono svegliato con un albatro in camera.
Non posso far niente fino a che non se ne andrà via.
vivianascarinci ha detto:
Bello pure rischiare il fuori tema se ci si lascia trasportare dalla poesia. Tu però non ci sei andata, grazie infatti di aver riportato per intero questa poesia che veramente fa capire con chiarezza spiazzante una dimensione esistenziale vera, non millantata o vagheggiata, né assunta come ruolo, semplicemente data dal fatto di essere “fatti” in un modo che ti mette alle calcagna l’albatro 🙂
Grazie di cuore Paola.
V
marinaraccanelli ha detto:
questo albatro di Patten mi ha colpito davvero, c’è una dimensione autentica, ironica anche, che mi incanta più di tanti intellettualismi!
e poi, come dicevano dei Beatles, se riuscivano a fare musica in un posto come Liverpool, vuol dire che avevano una marcia in più!
marina
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