Tag

, , , ,


Emily Bronte

Le poesie di Emily Brontë (1818-1848) suggeriscono un paesaggio selvaggio dell’anima, che riposa nel cuore della natura. Essa si spalanca su immensi cieli azzurri, respira la fragranza delle brughiere nella brezza della sera, s’affaccia su scenari suggestivi, scompigliati dal vento o dalla tempesta. L’essere sembra librarsi sopra spazi sconfinati e innalzare la sua sinfonia sublime negli ultrasuoni del sentire. Pare pascersi di nient’altro che di se stesso e accogliere dentro di sé l’intero universo. Quei colori, quello stuolo sterminato di terre diventano parte di sé, vivificano il mondo interiore.

 È uno spirito ingenuo che s’esalta per il tocco lieve della rugiada o per il palpito vergine di una stella:

“Non dovresti conoscere la disperazione / se le stelle scintillano ogni notte; / se la rugiada scende silenziosa a sera / e il sole indora il mattino.” (“Simpatia”). È barbarico, che succhia la linfa dalla Madre Terra, partecipando di ogni suo minimo sussulto: “Il sole della sera in limpido splendore / aveva lasciato il sacro cielo estivo / e le ombre del tramonto si facevano cupe / e le stelle si accendevano nell’azzurro profondo.”

La sostanza intima della poetessa è un magma incandescente che trascina qualsiasi cosa incontri sul suo passaggio. È anche un’anima delicata, che si sofferma con note dolenti sugli affetti spezzati, sull’inflessibile severità della morte, vinta tuttavia da una fede inespugnabile:

“Io dovrei piangere, io che ti lascio / a navigare su questo oceano fosco / tra l’infuriare delle tempeste e la paura / e non una luce a mostrarti la riva / Ma sia lunga o breve la vita / può forse paragonarsi all’eternità? / Ci separiamo quaggiù per incontrarci in alto / dove secoli di gioia non muoiono mai.” (“Versi”).

Ricorrono spesso le immagini dei defunti avvolti da un’inquietudine spettrale, nella consapevolezza che oramai appartengono all’eternità, che sarà centrale nel romanzo “Cime tempestose”, che ha dato la celebrità alla scrittrice.Frequenti sono le descrizioni dei notturni, con i loro segreti incanti, la casta bellezza delle stelle che rifulgono dietro le quinte di tenebre. Emily Brontë vive l’estasi della contemplazione in cui con stupore gaudioso vede svelarsi le meraviglie del creato, illuminarsi il palcoscenico iridescente dell’universo in uno splendore primigenio:

“Il tenue limpido azzurro dell’aria / la bella terra d’oro e smeraldo / fiorita come il giardino dell’Eden / l’aria e la terra mi hanno acquetato.” (“Versi”). Nell’eroica solitudine l’essere scala altezze vertiginose, assorto nella magnificente visione, mentre compiange il proprio abbandono: “Tutto il giorno sono stata sola / ho guardato la nebbia scendere / rivestire di grigio le colline / distendersi lungo la vallata.”

Alcune sono poesie epiche, ispirate a personaggi e a drammi d’invenzione, appartenenti ad una saga cui Emily lavorava insieme alla sorella Anne e di cui non è rimasta traccia in prosa, che hanno tutta la solennità e lo spessore tragico della teatralità.Al di là di tutto viene affermata la supremazia dell’anima, capace, sia pure per qualche istante, di svincolarsi dai ceppi della materia:

“Ma io dico che l’anima è libera / per un poco di lasciare il suo corpo / o mai nell’agonia dell’esilio / avrei visto la mia patria sorridere.”

È il canto di uno spirito libero e selvaggio, in grado di trascendere se stesso, in un anelito di dissoluzione del contingente per riposare nell’assoluto del divino, consapevole della sua forza immortale che valica la dimensione spazio – temporale e sconfina nella luce inaccessibile:

“Sono felice quanto più conduco / l’anima lontana dalla sua veste d’argilla / nel vento della notte quando la luna è chiara / e lo sguardo spazia in mondi di luce / Quando io non sono e nessuno è con me / terra né mare né cielo senza nubi / soltanto lo spirito libero e vagabondo / nella vasta infinita immensità.”