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Che fui? Che senso ebbe la mia presenza
in un tempo che questo film rievoca
ormai così tristemente fuori tempo?
Non posso farlo ora, ma devo
prima o poi sviscerarlo fino in fondo,
fino a un definitivo sollievo…
Lo so: ero appena partorito a un mondo
dove la dedizione di un adolescente
– buono come sua madre, improvvido
e animoso, mostruosamente
timido, e ignaro d’ogni altra omertà
che non fosse ideale – era avvilente
segno di scandalo, santità
ridicola. Ed era destinata
a farsi vizio: ché marcisce l’età
la mitezza, e fa, dell’accorato
dono di sé, ossessione. E se ho trovato
di nuovo un’accorata purezza
dell’amare il mondo, il mio
non è che amore, nudo amore, senza
futuro. Troppo perduto nel brusio
del mondo, troppo cosparso dell’amaro
di un pur triste, chapliniano riso…
È resa. Umile ebbrezza del contemplare,
partecipe, sviscerato – e inattivo.
Umile riscoperta d’un allegro restare
degli altri uomini al male: il reale,
vissuto da loro in un empireo di luoghi
miseri, ridenti, sulle rive
di gai torrenti, sui gioghi
di monti luminosi, sulle terre oppresse
dell’antica fame…
È senso della grandezza, questo senso
che mi strugge sui minimi atti
di ogni nostro giorno: riconoscenza
per questo loro riapparire intatti
a me sopravvissuto, e pieno ancora
di stantio pianto…

*

Non è Amore. Ma in che misura è mia
colpa il non fare dei miei affetti
Amore? Molta colpa, sia
pure, se potrei d’una pazza purezza,
d’una cieca pietà vivere giorno
per giorno… Dare scandalo di mitezza.
Ma la violenza in cui mi frastorno,
dei sensi, dell’intelletto, da anni,
era la sola strada. Intorno
a me alle origini c’era, degli inganni
istituiti, delle dovute illusioni,
solo la Lingua: che i primi affanni
di un bambino, le preumane passioni,
già impure, non esprimeva. E poi
quando adolescente nella nazione
conobbi altro che non fosse la gioia
del vivere infantile – in una patria
provinciale, ma per me assoluta, eroica –
fu l’anarchia. Nella nuova e già grama
borghesia d’una provincia senza purezza,
il primo apparire dell’Europa
fu per me apprendistato all’uso più
puro dell’espressione, che la scarsezza
della fede d’una classe morente
risarcisse con la follia ed i tòpoi
dell’eleganza: fosse l’indecente
chiarezza d’una lingua che evidenzia
la volontà a non essere, incosciente,
e la cosciente volontà a sussistere
nel privilegio e nella libertà
che per Grazia appartengono allo stile.

*

Così giunsi ai giorni della Resistenza
senza saperne nulla se non lo stile:
fu stile tutta luce, memorabile coscienza
di sole. Non poté mai sfiorire,
neanche per un istante, neanche quando
l’ Europa tremò nella più morta vigilia.
Fuggimmo con le masserizie su un carro
da Casarsa a un villaggio perduto
tra rogge e viti: ed era pura luce.
Mio fratello partì, in un mattino muto
di marzo, su un treno, clandestino,
la pistola in un libro: ed era pura luce.
Visse a lungo sui monti, che albeggiavano
quasi paradisiaci nel tetro azzurrino
del piano friulano: ed era pura luce.
Nella soffitta del casolare mia madre
guardava sempre perdutamente quei monti,
già conscia del destino: ed era pura luce.
Coi pochi contadini intorno
vivevo una gloriosa vita di perseguitato
dagli atroci editti: ed era pura luce.
Venne il giorno della morte
e della libertà, il mondo martoriato
si riconobbe nuovo nella luce……

Quella luce era speranza di giustizia:
non sapevo quale: la Giustizia.
La luce è sempre uguale ad altra luce.
Poi variò: da luce diventò incerta alba,
un’alba che cresceva, si allargava
sopra i campi friulani, sulle rogge.
Illuminava i braccianti che lottavano.
Così l’alba nascente fu una luce
fuori dall’eternità dello stile….
Nella storia la giustizia fu coscienza
d’una umana divisione di ricchezza,
e la speranza ebbe nuova luce.

*

Ecco quei tempi ricreati dalla forza
brutale delle immagini assolate:
quella luce di tragedia vitale.
Le pareti del processo, il prato
della fucilazione: e il fantasma
lontano, in cerchio, delle periferia
di Roma biancheggiante in una nuda luce.
Gli spari; la nostra morte, la nostra
sopravvivenza: sopravvissuti vanno
i ragazzi nel cerchio dei palazzi lontani
nell’acre colore del mattino. E io,
nella platea di oggi, ho come una serpe
nei visceri, che si torce: e mille lacrime
spuntano in ogni punto del mio corpo,
dagli occhi ai polpastrelli delle dita,
dalla radice dei capelli al petto:
un pianto smisurato perché sgorga
prima d’essere capito, precedente
quasi al dolore. Non so perché‚ trafitto
da tante lacrime sogguardo
quel gruppo di ragazzi allontanarsi
nell’acre luce di una Roma ignota,
la Roma appena affiorata dalla morte,
superstite con tutta la stupenda
gioia di biancheggiare nella luce:
piena del suo immediato destino
d’un dopoguerra epico, degli anni
brevi e degni d’un intera esistenza.
Li vedo allontanarsi: ed è ben chiaro
che, adolescenti, prendono la strada
della speranza, in mezzo alle macerie
assorbite da un biancore ch’è vita
quasi sessuale, sacra nelle sue miserie.
E il loro allontanarsi nella luce
mi fa ora raggricciare di pianto:
perché? Perché non c’era luce
nel loro futuro. Perché c’era questo
stanco ricadere, questa oscurità
Sono adulti, ora: hanno vissuto
quel loro sgomentante dopoguerra
di corruzione assorbita dalla luce,
e sono intorno a me, poveri uomini
a cui ogni martirio è stato inutile,
servi del tempo, in questi giorni
in cui si desta il doloroso stupore
di sapere che tutta quella luce,
per cui vivemmo, fu soltanto un sogno
ingiustificato, inoggettivo, fonte
ora di solitarie, vergognose lacrime.

***

Da Pier Paolo Pasolini, LA RELIGIONE DEL MIO TEMPO (6. Un’educazione sentimentale – La resistenza e la sua luce – Lacrime), Garzanti 1961.

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La foto è di Sandro Becchetti