Giuliano Agresti

Era l’ultimo giorno dell’anno 2010, allorché alla Messa prefestiva delle ore 18, a Fagnano (Lucca), il mio parroco don Piero Raffaelli annunciò che in Chiesa si trovava in vendita un libro di Monsignor Giuliano Agresti, che fu arcivescovo di Lucca dal 1973 al 1990, anno della sua morte (era nato a Barberino di Mugello nel 1921), succeduto nella cattedra lucchese ad un altro arcivescovo importante per la Chiesa, Monsignor Enrico Bartoletti. Don Raffaelli era stato il giovane segretario di Mons. Agresti per molti anni. A lui, il vescovo confidò che non aveva il coraggio di pubblicare questo libro, essendo scritto nella forma del romanzo. L’avrebbe lasciato in salamoia. E in salamoia è restato finché la Comunità di Gesù, da lui fondata, non ha deciso di darlo alle stampe.
Agresti ha al suo attivo numerosi articoli su quotidiani, e numerosi libri (almeno una quindicina) di carattere spirituale. Tra questi ne ricordo due; il primo dedicato ad una santa lucchese, uscito nel 1978: “Ritratto dell’espropriata: Santa Gemma Galgani”; il secondo “Fragole sull’asfalto” del 1987. Si dedicò anche alla musica e alla pittura.

In anticipo sui tempi, si mantenne in seguito un attento e convinto operatore spirituale e culturale nel solco segnato dal Concilio Vaticano II.

Un uomo che non ha nome (e potremmo essere ciascuno di noi), un inverno del 1980, un 3 di gennaio, con la neve per le strade, decide di abbandonare la sua casa e di fare il nomade. La conversazione con un eremita lo aveva convinto a questa scelta di “liberazione”: “lui decise, insieme al vecchio eremita, di farsi nomade per portare d’ambiente in ambiente la sua liberazione.” È un ex bancario in pensione. Ha sessant’anni. Porta con sé una bicicletta da arrotino, “ritinta d’arancio”, per guadagnarsi il pane. Dirà più avanti: “La bicicletta lo accettava così, facendosi anch’essa, passivamente, una storia.

La sensazione che emana immediatamente dopo la lettura delle prime pagine è di trovarci di fronte ad un viaggio dell’anima, tanto ambito dall’autore. Un sogno non realizzato, che la scrittura consente di rendere vivo e reale. Un viaggio che Agresti disegna per sé, ma anche per tutti gli uomini: “Riprese subito il cammino appena incominciato, entrando per la prima volta nel paese tutto interiore della perfetta libertà.

Ama gli uomini, di più quelli che ancora sono incrostati di rozzezza e di ignoranza, e tuttavia “semplici” e “innocenti”, piuttosto che gli istruiti e gli intellettuali, dotati di una “logorrea sporca e forzata”.

Il protagonista compie il suo viaggio con animo sereno (“un nomade particolare a cui soprattutto non mancava la felicità”), non è mai preso dallo sconforto (“Nulla gli apparteneva eppure tutto lo possedeva”), anche quando nota le miserie umane: “Cercò di fa pesare la sua speranza a costo di apparire un moralista.”; “Guardava cose «comuni» dai più non viste.”; “Questo Gennaio nevoso e piovoso gli pareva interminabile, perché era un uomo fatto per il sole.” Ha fiducia. Ciò che più lo preoccupa è la paura che vede disegnata, talvolta, nel volto degli uomini e delle donne. I numerosi paesi che attraversa, ciascuno caratterizzato da un propria artigianalità (una vera mappatura pastorale ed idilliaca del “nomade per amore”), tanto di pianura quanto di collina, in un fantasioso circondario che non è solo lucchese e toscano, sono quasi sempre spogli degli agi e delle frivolezze che caratterizzano una società evoluta e intraprendente. Quello che viene prediletto, è soprattutto il paesaggio della semplicità e della umiltà, fatto di gente “timida, accogliente, di poche parole.” Un’aspirazione. Un auspicio. Vi si respira sempre e in modo spiritualmente vivificatore l’essenza dell’antico, quella parte pura, restata incontaminata, della creazione. Essa emerge e s’impone ogni volta che le incrostazioni della vita generano sconforto e paura: “Via via quei ragazzi alzavano la celata di ferro, si denudavano nella loro vera identità ed erano solo delle debolezze messe insieme.

È interessante nominarli, questi paesi fantasiosi. Essi dànno il senso dell’ostinazione e della fede nel viaggio: Bulina, Albatro, Toringo, Favilla, Sassaia, Cocciglia, Mastiano, Moiano, Vesciano, Pergine, Bolania, Fiordana, Mosàra, Anchiano, Corvàra, Rubiana, Chiarsano, Mossàra, Toribbo, Lanciana, Sovezza, Foneglia, Novàno, Petràno, Nubiana, Sobiana, Pomaria, Massèra, Lucella, Marliano, San Vitale, Remiano, Sovigliano, Cherubìto, Sestrese, Tucignano, Formeza, Sàmmia, Resàra, Mirana, Fiumìto, Riano, Novina, Tireglio, San Vittore di Valle, Venella, Ovieda, Vesilia, Sillano, Sinalba, Oseglia, Miriano, Sovagna, Viamòla, Siniano, Biancano, Volgiano, Borghiana. Sono le tante stazioni di una Via Crucis redentrice. Hanno perfino la valenza di personaggi, questi luoghi, ciascuno con la propria caratterizzazione. Anche i pochi che non sono nominati (“Andò a lavorare in alcuni paesi abbastanza vicini fra loro”) e la città a cui non dà il nome, la città dove, nell’agosto ferragostano, va dal barbiere a radersi, hanno la loro caratteristica: la città è vuota, pochi avventori al bar, tutti proletari. Nei paesini innominati vi trova lavoro, con gli abitanti che gli tengono compagnia.

Il protagonista è un pellegrino, simile in qualche modo a quelli che nel medioevo battevano la via Romea per giungere a Roma e poi a Gerusalemme. Sembra di ripercorrere in chiave moderna il cammino che Geoffrey Chaucer disegna nel suo capolavoro “I racconti di Canterbury”.

L’autore non nasconde il proprio desiderio di un ritorno all’antico: “La famiglia contadina sembrava davvero non toccata dallo «sfacelo della coppia» o dal «conflitto generazionale»”. Lo si scopre in questa bella e sentita descrizione: “Raggiunse un altro paesino singolare. Acquattato su un costone, una cucchiaiata di case vecchie, pulite, con la chiesa in cima e le strade acciottolate.” È perplesso sui cosiddetti benefici del progresso: “Concluse che quel genere di luoghi abitati era invidiabile e pensò che alla fine l’inurbamento contemporaneo avrebbe ceduto a una nuova vita in pianure e colline. Ma lui non l’avrebbe visto.” Certi comportamenti umani, compiaciuti e vistosi, lo disgustano: “Saltò anche la cena, perché a volte, un po’ di digiuno non fa male, specie se nessuno lo sa e non viene scritto sui giornali.”; “Ma la moda era più potente del cervello. A volte della fede.

Anche la scrittura vive una sua peregrinazione, nella semplicità e nella serenità di un’anima che vi si è infiltrata e l’ha scelta come propria voce e testimonianza. Ha lo stesso procedere del pellegrino che cammina coi calzari o addirittura a piedi nudi sull’impervia strada della vita. Le ferite prodotte dalla fatica dell’incedere, sebbene dolorose, non sono mai sofferte come tali. Esse sono rivelatrici delle devianze e delle cadute, e in ciò sta il loro pregio e la loro gioiosa accettazione. Quante più ferite si raccolgono lungo la strada della vita, tanto più ci si emenda e si ristabilisce l’ordine e la purezza primigenia. Quando occorre, Agresti non rinuncia a dare pure qualche puntura di spillo: “Vado indagando sulla felicità degli uomini e spiando come Dio raddrizzi i loro tiri storti.”; “l’Italia dell’«espropriazione proletaria» per mangiare e bere senza pagare.”; “l’agricoltura deve riavere il suo posto nella nostra economia.”; “la pizza televisiva di un letterato sinistrese, intervistato in una gran casa lussuosissima, poteva far plagio e, appunto, convincere che il diritto è il rovescio e viceversa.”; “Un paese diviso, mantenuto ingovernabile è un paese che si può giocare come si vuole.”; “Non c’era infatti una categoria più dileggiata e bestemmiata di quella dei politici. Essi poi rincaravano da se stessi la dose facendosi vicendevolmente le scarpe senza ritegno.” Non mancheranno lungo tutto il viaggio considerazioni amare su ciò che si poteva fare e non si è fatto per il bene comune. Soprattutto a riguardo delle guerre e della fame, che fanno molte vittime e si potrebbero facilmente evitare.

È una scrittura che si arricchisce della naturale propensione al bello e all’efficace dei toscani. Basta questo elenco di parole e di frasi, come: bisso, far meglio le spalle, bozzolose, variatore, dimoiava, colonìa, ci entrava soltanto di domandare alloggio, pettate, avviava a conoscere, sguaglio, marzolo, strisciò la barba, ingrigiata, montura, legnato, incocciava, ragazzoli, bigoncioli, ragazzole, burattiname, diavoleria, diverìa, orfanezza, colonìa, raffrescare, bruscolare. Osservate questa breve, ma eccellente descrizione: “Un ragazzo cantò nelle sue stanze e, dalla finestra aperta, gli veniva giù la sua voce.” Un rotolare gioioso nella strada (“diventata perfino una festa.”) e nella vita. Gioia e luce sono componenti essenziali del romanzo. Sono il filo rosso che lega tra loro le pagine, finanche quelle dolorose della guerra, che ogni tanto fa capolino nella memoria del protagonista. L’autore non manca mai l’opportunità di portarle allo scoperto: “cercò di andare lento per prendere tutto il sole mattutino che faceva dei giochi stupendi sulle foglie bagnate di brina e sui terreni arati con le zolle rivoltate e nude.

Da poco il protagonista si era destato da un sogno che gli aveva fatto rivivere brani feroci dell’ultima guerra.

Il nomade è quasi un angelo, dove passa porta il buon umore e dona serenità: Ciò che guadagna ogni giorno con il suo lavoro lo offre ai bisognosi: “Aveva lasciato tutto il denaro, la sera avanti, nella casa di una vedova con quattro figli sotto i dieci anni.

Se c’è un funerale, vi partecipa: “Era umanità per via, era dolore umano di alcuni. Non importava chi fossero.

Si definisce un “liberato”, e perciò disponibile per gli altri: “Il suo Dio gli insegnava così e pure la sua donna, più viva di lui.” Si era sposato in tempo di guerra, gli era stata concessa una licenza speciale di pochi giorni, poi era ripartito e non aveva più rivisto la sua sposa, rimasta uccisa sotto un bombardamento, e con lei il figlio di cui era incinta.

La presenza nel protagonista di un forte sentimento religioso è costante: “Era un nomade senza alcuna riserva a farsi gestire da Dio.”; “– Tutto ha un senso – disse lui all’aria e non parlava da solo.

In questa scelta c’è tuttavia qualcosa di più che l’abbandonarsi alla fede; c’è la chiave per accedere ad un’esistenza aperta e senza confini, su cui possa distendersi un’anima che ha fatto della serenità, della gioia, della bontà e della speranza (“lunga come la strada”), i propri orizzonti del vivere. Sono questi, in realtà, i veri strumenti di lavoro dell’arrotino: “Non fece come un curioso o un poliziotto, ma come uno che voleva sempre conoscere tutto il mistero dell’uomo.

La morte della moglie gli aveva fatto perdere la fede, poi riconquistata proprio grazie al ricordo costante di lei: “Nel buio trovò il suo «Dio familiare», proprio mentre cresceva intorno a lui l’assenza di Dio.

L’autore non tralascia di annotare gli eventi della natura; ne fa i compagni fedeli del protagonista. Partito a gennaio, con la neve nelle strade, l’arrotino percorrerà tutti i mesi dell’anno e incontrerà via via i segni delle stagioni. Esse rappresentano i tanti colori della sua anima, la quale se ne nutre: “Guardava le funi dell’acqua, i bagliori violenti dei fulmini e ascoltava i tuoni. Ora non facevano brontolii, ma boati e rombi secchi. Accese una sigaretta, si sedette sui mattoni e si lasciò andare al temporale. Gli pareva che anche la natura sconvolta avesse un senso e nella musica della tempesta vi fosse un significato.

Apprendista dell’infinito”, ne trova i segni nelle minute cose, nelle quali scorge sempre la presenza del suo “Dio familiare”. L’autore riesce a combinare insieme la finitudine dell’uomo con il soffio eterno della divinità che lo anima: “Solo i gabbiani animavano la sua libertà, col dominio ritmato dell’aria, senza fargli rumore, eccetto qualche raro stridio, del resto per lui significativo, come se esprimesse il grido di felicità che gli saliva dal di dentro.”; “Le alghe risecchite e le conchiglie vuote che toccava, giocherellando con i piedi, erano nella collana dell’infinito.

Il viaggio ormai si sta trasformando del tutto in un cammino spirituale. Dio, l’uomo, la natura si compenetrano in una visione sublimale fuori da ogni confine che non sia quello dell’eterno e dell’infinito: “Camminò così mezza giornata, fermandosi a mangiare le riserve delle borse e bevendo alle fontane, finché scollinò e vide davanti a sé un’ampia pianura tutta abitata.” Sembra di assistere all’apparizione di una specie di Gerusalemme celeste. Fantastico e spirituale si mescolano magistralmente. Anche se il pensiero di ciò che da decenni accade in Italia, soprattutto per colpa della politica, lo incupisce: “Eppure non riuscì a liberarsi nonostante la buona volontà, perché quei partiti italiani, prevalenti su tutto e attori di schermaglie interminabili, che giocavano alle furberie, cercavano strategie, dicevano e non dicevano, tutti però dichiarandosi egualmente preoccupati del bene del Paese, della crisi economica e della più grave crisi delle istituzioni, gli suggerivano piuttosto diffidenza. Alcuni avrebbero cambiato il governo ogni stagione e il peggio era che avrebbero rovesciato i governi mentre si davano un largo «embrassons-nous». Facevano di tutto perché, mentre la gente moriva per le strade e l’eversione mostrava i denti, gli Italiani si misurassero la febbre con le elezioni quasi ogni anno.” Non si può non riconoscere in questo spaccato un male endemico del nostro Paese che si trascina fin da quasi il principio della nostra storia repubblicana, e ancora la stortura non si è corretta, come ogni cittadino può vedere da sé. Qui, il pellegrino “senza-terra-in-tutte-le-terre”, lascia per un momento il suo universale per scendere da noi, così come Dante non nascose, addolorandosene, i mali dell’Italia nel VI canto del Purgatorio (“Ahi serva Italia, di dolore ostello,/nave sanza nocchiere in gran tempesta,/non donna di province, ma bordello!”).

La strada che percorre (“il suo riposo e il suo confronto”) è il viatico per una purificazione che non potrà mancare e che attende tutti: “Stava conoscendo la strada come storia e come favola, come palcoscenico e come rivelazione, come misura di libertà e come costrizione continua.

Non è un pellegrino qualunque. La gente gli dà del “voi” come se si trovasse davanti ad un uomo particolare. E lo è, dal momento che, contrariamente ai tanti, perfino i romanzieri che dalla realtà traggono “l’abnorme e il pazzesco”, egli, al contrario, cerca nella strada, “così com’era”, il “vero romanzo della vita”.

I suoi occhi di osservatore, dunque, non sono alterati da alcuna ideologia o pregiudiziale. Se ne ha avute, se n’è liberato. Nessuna barriera si frappone tra lui e il mondo, tra lui e gli uomini: “Guardò ancora le cose che non dicevano quasi più nulla ai molti e che lui suonava come un organo”; “il passo del nomade lo aveva introdotto in un mondo fantastico.

La descrizione del mendicante, “un uomo in fuga”, con il quale condivide, seduti sul ciglio della strada, pane e formaggio, è al tempo stesso una profondissima riflessione sulla condizione umana nonché sulle sue molteplici sfaccettature, tutte segno di una nobiltà, e anche di una sofferenza, che discendono da Dio: “Le nuvole s’addensavano, la pioggia si ratteneva ancora sulla singolare conversazione dei due.” Così accade per la vecchia madre di quel marinaio folle che più tardi incontrerà sulle rive di un rigagnolo. Così accade per il vecchio zingaro, “il più vecchio, dagli occhi azzurri e fondi e nei quali, a lui parve, erano impresse le lunghe strade battute.

Pure da Dio discende la rassicurante percezione di una compagnia invisibile ma presente lungo il suo cammino di nomade: la compagnia della giovane moglie perduta e del suo bambino, “in una corrispondenza vitale e perfetta, annodata nel fondo dello spirito.

Agresti sta facendo del suo percorso umano e spirituale uno strumento di penetrazione e di conoscenza che non solo attraversa ed illumina la realtà, come una porta magica che si spalanca davanti ai nostri occhi, ma che attraversa ed illumina anche dentro di noi, trasformando le nostre insicurezze in consapevolezza e stupore: “lui aveva una chiave di volta per un misterioso «vedere»”.

Nel peregrinare del suo personaggio non c’è tema civile che sfugga alla sua attenzione, dalla politica corrotta ai vizi della gioventù, alla clonazione degli animali per arrivare all’uomo, dalla violenza brigatista alle stragi, alla letteratura, dall’eremitaggio alla salubrità umana e spirituale di una vita rustica.

Tutto deve passare dal suo nomadismo, tanto il bene quanto il male, attraverso il filtro conciliatore della sua scelta: “Il suo nomadismo faceva fiorire i frutti di una vita intera, dunque la sua liberazione raccoglieva tutti i frammenti sparsi.

Un filtro tutto speciale che sa scomporre e ricomporre finanche la perfezione della Creazione: “Lui aspettava invece dalla sua lunga strada familiare un colore nuovo, un sapore d’erba mai sentito e la favola di un bruco verde.” Ne troviamo un esempio nella descrizione delle tre farfalle, “due bianche e una gialla”, che gli si avvicinano con il loro volo balzellante, mentre sta sdraiato sull’erba: “Parevano conoscere musica e pittura.” Così accadrà per la foglia autunnale del pioppo: “Il giallo della foglia di pioppo metteva in evidenza le nervature grosse e piccole, la rete stupenda dove passava il respiro, la traspirazione, il rifornimento idrico. Una foglia come un mondo giocato in ritmo.

Il primo novembre, festa dei Santi, per la prima volta mendicherà un po’ di cibo per farsi mendicante di Dio.

È diventato un nomade speciale fino in fondo, immerso tutto nella pienezza, nella bontà, nella misericordia di Dio. In lui non vive il Dio severo e onnipotente, ma il Dio della comprensione e della pietà, il Dio della carità e del perdono.

È il Dio che si è fatto carne, il Dio che è sceso sulla Terra per donarci il comandamento nuovo dell’amore, che Agresti desidera farci conoscere attraverso il suo nomade. Solo acquisendo i suoi sentimenti, solo distribuendoli come doni, il mondo potrà essere migliore. C’è una vita diversa, nascosta tra i luccichii ingannatori del progresso, una vita che si muove nell’umiltà e spinta dai buoni sentimenti. La si può scoprire spogliandosi dei nostri abiti più preziosi, delle nostre abitudini più calde e appassionate.

Davanti ad una vetrina si ferma ad ammirare i fiori che vi sono esposti, di molti colori: “Raccoglieva dalla vetrina infiorata il cantico della natura universale, fuori dalla quale l’uomo era senza contorni, quindi sfigurato.

È arrivato il freddo dicembre, di nuovo l’inverno, come quando era partito. Dovunque però, ed in ogni stagione, si possono trovare armonia e bellezza.

Aveva chiesto alloggio in una locanda, ma glielo avevano rifiutato: “Forse appariva indesiderabile e lui, senza problemi, aveva dormito alla meglio in un androne. Al mattino i fiori gli erano parsi più belli.” E ancora: “La neve non è brutta come la disperazione e la guerra.

Come scoprirete, il protagonista non riceverà alcun premio per il suo viaggio, intrapreso con speranza e con amore. Ma ne farà dono. Allo stesso modo che avviene con il calore che emana dalla cenere. Il nomade si è così trasformato, e rivelato, un uomo a cui “era dato di fare un breve lume, una breve parabola.

Ma il romanzo è anche la parabola di quello stesso seme di cui Agresti scrive: “Una parabola banale e meravigliosa, la speranza, la speranza, la speranza.

Non è poco.