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C’è, in questo andare di Böcklin verso l’isola,ogni volta un cambiamento e uno scavo profondo,un togliere per aumentare la distanza, il distacco del congedo. L’Isola dei morti (Die Toteninsel), l’opera di cui sono riportate le 5 versioni, evoca in parte il Cimitero degli Inglesi, che si trovava vicino al suo studio e nel quale era sepolta la figlia. I diversi dipinti con lo stesso soggeto tematico, il viaggio all’isola, li eseguì negli anni tra il 1880 e il 1886. Tema comune è un rematore ed una figura vestita di bianco in una piccola barca che attraversa acque profonde e scure, diretta ad un’isola di sassi tra cui spiccano alcune più grandi masse, tracce di segni archeologici di un passato non meglio identificabile ma che accomuna le epoche dell’uomo. Nella barca c’è un oggetto che potrebbe essere una bara. Böcklin non diede né un titolo né una sua interpretazione dell’opera. Anche l’approdo all’isola cambia,a volte c’è una barriera data da un muro di cinta e un cancello, a volte l’approdo è arretrato e non in linea con il resto del corpo dell’isola. Cambiano anche le tonalità dei colori, a volte un tramonto nei toni dei bruciati, a volte il livido colore dell’alba o di una tetra giornata invernale. L’uomo è sempre in piedi e di spalle, non ci è dato sapere cosa guardi e se guarda. Le cinque versioni dell’Isola dei morti si trovano a:

1. (1880) – The Metropolitan Museum of art- New York

2. (1880) – Kunstmuseum- Basilea.

3. (1883) – Alte Nationalgalerie- Berlino.

4. (1884) – Distrutta a Rotterdam durante la Seconda guerra mondiale.

5. (1886) – Museum der bildenden Künste- Lipsia.

Adolf Hitler ne restò fortemente impressionato e ossessionato , tanto da procurarsene una copia per sé, che ora viene conservata a Berlino.

Se non fosse per l’impatto scenografico delle masse di pietra, la luce e i cipressi, ma soprattutto l’andare con la barca verso l’isola, terra cimiteriale, ricordano Venezia, il cimitero nell’isola di San Michele. Il muro di cinta del cimitero sembra qui aver acquistato maggior fisicità, per l’aumento della dimensione,  lo   “spessore”, tanto da evocare chiaramente un simbolo: è una barriera intatta, non facilmente valicabile e al tempo stesso sempre visibilmente presente, un monolite la morte-l’isola i viventi-mortali. La bara, che forse è contenuta all’interno della barca (elemento che anche Dante usa nel suo viaggio all’inferno, il luogo dei “morti”, in cui la mortalità non è solo del corpo ma anche dell’anima e della relazione con il prossimo o la vita) potrebbe essere il grave peso, il mortale involucro che avvolge lo spirito, presente nel pittore per la morte della figlia, in Cioran, invece, per l’insieme fortemente tragico con cui percepisce l’esistenza. Un aforisma, anche quello di Böcklin, eseguito attraverso segni da decifrare ogni volta , che ogni volta però non risulta bastante poiché c’è una ulteriore possibilità di guardare quel luogo,fino all’approssimarsi della morte stessa.

Cioran sembra eseguire, nei suoi pensieri, lo stesso tipo di avvicinamento e nella barca c’è solo lui, e il mondo è l’acqua è la pietra e il cimitero. Eppure non gli basta, inventa un quadro nuovo e altre prospettive da cui guardare la stessa isola, percorrendo direzioni in cui si scorpora e si incorpora all’isola medesima, anzi sente di esserlo, senza via di scampo se non quell’acqua gelida e scura come la notte.T erribile e annichilente, ma potente e vero, un uomo che non fugge e non mette in fuga il dolore.

EMIL CIORAN – PENSIERI – DAL VOLUME “QUADERNI”
BIBLIOTECA ADELPHI 411

Se tanta ambiguità e tanto turbamento sono parte integrante della lucidità, è perché essa è il risultato del cattivo uso che abbiamo fatto delle nostre veglie.

Trasportandoci al di qua del nostro passato, l’ossessione della nascita ci fa perdere il gusto del futuro, del presente, e del passato stesso.

Rari sono i giorni in cui, proiettato nella post-storia, io non assista all’ilarità degli dèi al termine dell’episodio umano.

Occorre pure una visione di ricambio, quando quella del Giudizio non accontenta più nessuno.

Un’idea, un essere, qualsiasi cosa si incarni perde il suo volto, tende al grottesco. Frustrazione del compimento. Non evadere mai dal possibile, lasciarsi andare, da eterno velleitario, dimenticare di nascere.

La vera, unica sfortuna: quella di venire alla luce. Risale all’aggressività, al principio di espansione e di rabbia annidato nelle origini, allo slancio verso il peggio che le squassò.

Quando due persone si rivedono dopo molti anni dovrebbero sedersi l’una di fronte all’altra e non dirsi niente per ore ed ore, affinché con il favore del silenzio la costernazione possa assaporare se stessa.

Giorni miracolosamente colpiti da sterilità. Invece di rallegrarmene, di gridare vittoria, di convertire quell’aridità in festa, di vederli come un punto d’arrivo e come una prova della mia maturità, insomma del mio distacco, mi lascio pervadere dalla stizza e dal cattivo umore: tanto è tenace in noi il vecchio uomo, la canaglia smaniosa incapace di scomparire.

Sono attratto dalla filosofia indù, il cui proposito essenziale è il superamento dell’io; eppure tutto quello che faccio e tutto quello che penso è solo io e disgrazie dell’io.

Mentre agiamo abbiamo uno scopo; ma l’azione, una volta conclusa, non ha per noi maggiore realtà dello scopo che perseguivamo. Non c’era dunque nulla di veramente consistente in tutto ciò, era solo gioco. Ma ci sono alcuni che hanno coscienza di questo gioco durante l’azione stessa: vivono la conclusione nelle premesse, il realizzato nel virtuale, minano la serietà con il fatto stesso di esistere.

Ho un coraggio negativo, un coraggio rivolto contro me stesso. Ho orientato la mia vita fuori del senso che essa mi prescriveva. Ho invalidato il mio futuro.

Ho un enorme anticipo sulla morte.

Sono un filosofo urlatore. Le mie idee, ammesso che esistano, abbaiano; non spiegano nulla, strepitano.

Per tutta la vita ho avuto il culto dei grandi tiranni immersi nel sangue e nel rimorso.

Mi sono perso nelle Lettere per l’impossibilità di uccidere o di uccidermi. È stata solo questa incapacità, questa vigliaccheria a far di me uno scribacchino.

Se avessi portato a termine solo un decimo dei miei progetti, sarei di gran lunga il più fecondo autore mai esistito. Per mia disgrazia, o per mia fortuna, mi sono sempre dedicato molto di più al possibile che al reale, e niente è più estraneo alla mia natura del concludere. Ho approfondito nei minimi dettagli tutto ciò che mai avrei fatto. Mi sono spinto all’estremo del virtuale.

17 gennaio 1958 – Qualche giorno fa… Mi accingevo a uscire, quando, per aggiustarmi il foulard, mi guardo allo specchio. E improvvisamente, un indicibile spavento: chi è quest’uomo? Impossibile riconoscermi. Per quanto identificassi il mio cappotto, il mio foulard, il mio cappello, non sapevo chi fossi; perché non ero io. Questo per circa trenta secondi. Quando riuscii a riprendermi, il terrore non cessò subito, ma diminuì un po’ alla volta. Mantenere la ragione è un privilegio che può esserci tolto.

Come sarà il futuro?
La rivolta dei popoli senza storia.In Europa è chiaro; a trionfare saranno soltanto i popoli che non hanno vissuto.

La mia incapacità di vivere è pari soltanto a quella di guadagnarmi da vivere. Il denaro e io siamo incompatibili. Sono arrivato a quarantasette anni senza aver mai avuto un reddito!
Non posso pensare a nulla in termini di denaro.

Per guadagnarsi da vivere, bisogna occuparsi degli altri; ma io sono mobilitato soltanto da… Dio e da me stesso, dal tutto e dal niente.

Sono appena morto…

Toccare il limite più basso, l’estremo dell’umiliazione, sprofondarvi con un abbandono sistematico, con una sorta di ostinazione inconscia e morbosa! Diventare uno straccio, un rifiuto, sprofondare nel fango; e poi, sopraffatti dal terrore della vergogna, esplodere e riprendersi, raccogliendo i propri cocci.

Non posso scendere più giù nel mio nulla, non posso oltrepassare i limiti del mio decadimento.

Tutte le impossibilità si riducono a una sola: quella di amare, quella di evadere dalla propria tristezza.

La disperazione è indubbiamente un peccato; ma un peccato contro se stessi. (Che intuizione profonda nel cristianesimo! Annoverare fra i peccati l’assenza di speranza!)

La malattia è venuta a dare sapore alla mia miseria, a condire la mia povertà.

Gridare rivolti a chi? Questo è stato il solo e unico problema di tutta la mia vita.

19 febbraio 1958. Felicità intollerabile! Migliaia di pianeti si espandono nell’illimitato della coscienza. Felicità terrificante.

Sensazioni da povero diavolo – e sensazione di essere un dio – non ne ho conosciute altre. Punto e infinito le mie dimensioni, i miei modi di esistenza.

Se la sensazione della vanità di ogni cosa potesse da sola conferire la santità, quale santo non sarei! Occuperei il primo posto nella gerarchia dei santi!

Il fondo della disperazione è il dubbio su se stessi.

Sono finito, sono sull’orlo della preghiera.

Oggi, 20 febbraio 1958, ho pensato allo stato di putrefazione in cui si trovano i miei amici morti e mio padre, e ho immaginato la mia stessa putrefazione.

Solo il lavoro potrebbe salvarmi, ma lavorare mi è impossibile. La volontà in me è stata “lesa” alla nascita. Progetti infiniti, chimerici, sproporzionati alle mie capacità.

Ho dentro di me qualcosa che mi invalida, che mi ha sempre invalidato. Un cattivo principio connaturato al mio sangue e alla mia mente.

24 febbraio 1958 – Da qualche giorno sono di nuovo in preda all’idea del suicidio. Ci penso spesso, è vero; ma pensarci è una cosa, esserne dominati un’altra. Spaventoso accesso di cupe ossessioni. Impossibile, con le mie sole forze, continuare a lungo così. Ho esaurito ogni capacità di consolarmi.

Visione di crolli. Ecco in che cosa vivo dalla mattina alla sera. Ho tutte le infermità di un profeta senza averne le doti.E tuttavia so – con una certezza impetuosa, irresistibile di possedere, se non dei lumi, almeno dei barlumi sull’avvenire. E che avvenire, Dio mio!
Mi sento contemporaneo di tutti i futuri terrori.

La mia grande predilezione per i naufragi.

Ho tutto dell’epilettico, tranne l’epilessia.

Accessi di violenza sovrumani, disumani! Talvolta ho l’impressione che tutta la mia carne, tutto quanto in me è materia, un giorno di colpo si dissolverà in un grido il cui significato sfuggirà a tutti, fuorché a Dio…

Falso profeta: le mie stesse delusioni sono naufragate.

La sola cosa che mi aggradi è la fine del mondo… Bisogno di terrore o infinita apatia?

Quali che siano le mie recriminazioni, le mie violenze, le mie amarezze, derivano tutte da una scontentezza di me stesso che nessuno quaggiù potrà mai provare. Orrore di sé, orrore del mondo.

Dopo una notte in bianco, sono sceso in strada. I passanti assomigliavano tutti ad automi; nessuno sembrava vivo, ognuno pareva mosso da un congegno nascosto; movimenti geometrici; niente di spontaneo; sorrisi meccanici; un gesticolare da fantocci – una totale rigidità…

Non è la prima volta che mi coglie, dopo l’insonnia, questa impressione di mondo irrigidito, abbandonato dalla vita. Le veglie mi assorbono il sangue, anzi me lo divorano; fantoccio io stesso, come potrei vedere negli altri i segni della realtà?

Più vicino alla tragedia greca che alla Bibbia. Ho sempre capito e sentito più il Destino che Dio.

La mia noia è ESPLOSIVA. Questo è il vantaggio che ho sui grandi annoiati, che generalmente erano passivi e miti.

7 giugno 1958 – Trovato in un angolo un pezzo di formaggio, gettato lì da chissà quanto tempo. Un esercito di insetti neri tutto intorno. Quegli stessi che immaginiamo consumare gli ultimi resti di un cervello. Pensare al proprio cadavere, alle orribili metamorfosi cui sarà sottoposto, ha qualcosa di tranquillizzante: vi corazza contro le pene e le angosce; una paura che ne distrugge mille altre.

Il persistere in me delle visioni macabre mi rende del tutto simile ai Padri del deserto. Un eremita in piena Parigi.

Non credo che le virtù siano collegate, che possederne una significhi possederle tutte. In realtà non fanno che neutralizzarsi a vicenda; sono invidiose. Di qui la nostra mediocrità e la nostra inerzia.

Signore, perché non ho la vocazione alla preghiera? Nessuno al mondo è più vicino a te, e più lontano. Un briciolo di certezza, un po’ di consolazione, non ti chiedo altro. Ma tu non puoi rispondere, non puoi.

Per produrre un’opera ci vuole un minimo di fiducia – in se stessi o in ciò che si fa. Ma quando si dubita di sé e delle proprie iniziative al punto che il dubbio diventa convinzione! Fede negativa e sterile, che non porta a nulla se non a complicazioni senza fine, o a grida strozzate.

Parigi: insetti pigiati in una scatola. Essere un insetto celebre. Ogni gloria è risibile; chi vi aspira deve avere sul serio il gusto del decadimento.

9 giugno 1958 – L’universo mi esplode nel cervello. Febbre intollerabile.Sono a un passo dal Caos. Gli elementi si scatenano. Mi manca la terra sotto i piedi. Chi mi riconcilierà con checchessia? Un punto fermo, cerco un punto fermo, e non trovo che incertezza e melma, e un incoercibile delirio. L’essere è un testo cancellato, e io non ho più la forza di riscriverlo.

Tutto è apparenza – ma apparenza di che cosa? Del Niente.

Ho in me un fondo di scetticismo su cui nulla ha presa, e che resiste all’assalto di tutte le mie convinzioni, di tutte le mie velleità metafisiche.

Questa febbre allo stato puro, sterile, e questo grido congelato!

Avere la percezione ossessiva del proprio nulla non significa essere umili, tutt’altro. Un po’ di umiltà, un po’ di umiltà, ne avrei bisogno più di chiunque altro. Ma la sensazione della mia nullità mi riempie di orgoglio.

Devo fabbricarmi un sorriso, munirmene, mettermi sotto la sua protezione, frapporre qualcosa tra il mondo e me, camuffare le mie ferite, imparare, insomma, a usare la maschera.

Una vita da fallito, da rottame, piena di tristezze inutili e spossanti, di nostalgie senza oggetto e senza direzione; una nullità che vaga per le strade, e che si crogiola nei suoi dolori e nei suoi sogghigni…

Ah, se potessi convertirmi alla mia essenza! Ma se fosse corrotta? Non c’è dubbio, mi annullo e tutto mi annulla. Non c’è più traccia di me in me stesso.

In politica come in ogni altra cosa non c’è niente di più abietto che attaccare un solitario.

Solo le filosofie e le religioni che adulano l’uomo hanno successo. Il cristianesimo ha dominato per secoli non in virtù del peccato originale, né dell’inferno, ma perché il figlio di Dio si è degnato di incarnarsi. Ciò ha dato all’uomo una posizione smisurata, posizione che gli viene riconosciuta dalle visioni del “progresso”, quali che siano. L’uomo ha un assoluto bisogno di porsi al centro di tutto; se avesse l’esatta percezione della propria insignificanza, dell’accidentalità della sua comparsa, perderebbe una parte della sua “vitalità”; e magari deporrebbe le anni, cosa davvero insperata.

Con una visione delle cose come la mia, difficilmente un altro sarebbe riuscito a resistere tanti anni. Sicché, per quanto strano possa sembrare, ci sono giorni in cui mi vedo come un eroe.

Solo quelli che non parlano che di se stessi, delle proprie esperienze e delle proprie vicissitudini rischiano di imbattersi in qualche verità e di fare scoperte significative. Lavorano su ciò che conoscono, e dunque necessariamente danno qualcosa agli altri. Non è il filosofo, ma il poeta a raggiungere l’universalità.

Per uno scrittore, come per chiunque, è meglio essere fischiato che applaudito. Nell’ignominia si è più vicini all’essenziale che non nella gloria.

Non bisognerebbe mai scrivere per fare un libro, ossia non si deve scrivere con l’idea di rivolgersi agli altri. Si deve scrivere per se stessi, punto e basta. Gli altri non contano. Un pensiero deve rivolgersi solo a colui che lo concepisce. E questa la condizione indispensabile perché gli altri possano assimilarlo con profitto, farlo veramente loro.

L’ossessione dell’opera da creare, da lasciare, mi sembra sempre più puerile. Bisogna essere qualcuno, l’opera è secondaria: una superstizione tutto sommato piuttosto recente. Quanto erano migliori della nostra le civiltà orali! In realtà anche gli Antichi avevano il pregiudizio dello scritto. Bisogna risalire a Omero per trovare un mondo ancora nel vero.

Nutro il più grande disprezzo per gli scrittori che pretendono e credono di essere maledetti, mentre fanno a meraviglia i loro affari. C’è uno che si atteggia a solitario, ma compare nelle riviste, corteggia i giovani e non perde occasione per far parlare di sé. Il tutto con l’aria apparentemente distaccata; in realtà con un grandissimo desiderio di essere presente dappertutto.

Ogni scrittore è detestabile in quanto scrittore. Forse bisognerebbe generalizzare: è detestabile chiunque si sforzi di operare, in un modo o nell’altro.

Il vantaggio di vivere a Parigi è di poter dare sfogo al proprio disprezzo dove e quando si vuole; è una possibilità che altrove si esaurisce presto per mancanza di obiettivi; qui cresce, soprattutto a contatto con le persone di talento. Si direbbe che più uno è dotato, più è destinato a deludere a livello spirituale.

Costringersi a dare il minimo è diventato il mio motto. In punto di morte, mi piacerebbe dire: “Non ho fatto tutto ciò che avrei potuto”.

Orgoglio a rovescio, temo. Non è forse un inganno, per non dire disonestà, lasciar supporre doti che non si hanno o che si possiedono solo allo stato embrionale?

Chiunque cerchi elogi o anche una semplice approvazione dimostra di non essere sufficientemente orgoglioso.

Il poeta che medita sul linguaggio dimostra che la poesia lo ha abbandonato.

A un gruppo di studenti che mi invitano a fare una conferenza rispondo che “perdo ogni facoltà davanti alla faccia umana”. Parlare in pubblico mi sembra inconcepibile; d’altronde non ne sono affatto capace. Si tratta di un’incapacità patologica. Appena sono davanti a molta gente (anche degli intimi, in un salotto), smetto di articolare parola, mi sento come una bestia muta, improvvisamente ricongiunto a un universo anteriore al linguaggio. Spesso ho pensato a La Rochefoucauld, che si rifiutò di entrare all’Accademia per paura di dover fare il discorso di rito.

Le tre del mattino. Percepisco questo secondo, e poi quest’altro, faccio il bilancio di ogni minuto.Perché tutto questo? – Perché sono nato.È da un tipo speciale di veglia che deriva la messa in discussione della nascita

“Da quando sono al mondo” – quel da quando mi pare gravato di un significato così spaventoso da diventare insostenibile.

Esiste una conoscenza che toglie peso e portata a quello che si fa – e per la quale tutto è privo di fondamento tranne essa medesima. Pura al punto da aborrire perfino l’idea di oggetto, traduce quel sapere estremo secondo il quale fare o non fare un atto è la stessa cosa, e a cui si associa una soddisfazione altrettanto estrema: il poter ripetere, a ogni incontro, che nessuno dei gesti da noi compiuti merita la nostra adesione, che niente è avvalorato da una qualche traccia di sostanza, che la «realtà» è dell’ordine dell’insensato. Una tale conoscenza meriterebbe di essere definita postuma: opera infatti come se chi conosce fosse vivo e non vivo, essere e memoria di essere. «È già passato» dice costui di tutto ciò che compie, nell’istante stesso dell’atto, che viene così destituito per sempre di presente.

Noi non corriamo, verso la morte, fuggiamo la catastrofe della nascita, ci affanniamo, superstiti che cercano di dimenticarla. La paura della morte è solo la proiezione nel futuro di una paura che risale al nostro primo istante.

Ci ripugna, certo, considerare la nascita un flagello: non ci è stato forse inculcato che era il bene supremo, che il peggio era posto alla fine e non all’inizio della nostra traiettoria? Il male, il vero male, è però dietro, non davanti a noi. E quanto è sfuggito al Cristo, è quanto ha invece colto il Buddha: «Se tre cose non esistessero al mondo, o discepoli, il Perfetto non apparirebbe nel mondo…». E, alla vecchiezza e alla morte, antepone il fatto di nascere, fonte di tutte le infermità e di tutti i disastri.

Si può sopportare qualsiasi verità, per quanto distruttrice sia, purché surroghi tutto, e abbia la stessa vitalità della speranza alla quale si è sostituita.
Non faccio niente, d’accordo. Ma vedo passare le ore – e questo è meglio che cercare di riempirle.

Non bisogna costringersi a un’opera, bisogna solo dire qualcosa che si possa bisbigliare all’orecchio di un ubriaco o di un morente.

La prova migliore di quanto l’umanità stia regredendo è l’impossibilità di trovare un solo popolo, una sola tribù, in cui la nascita provochi ancora lutto e lamenti.

Insorgere contro l’ereditarietà è insorgere contro miliardi di anni, contro la prima cellula.

C’è un dio al principio, se non alla fine, di ogni gioia.

Non sono mai a mio agio nell’immediato, mi seduce solo quello che mi precede, quello che mi allontana da qui, gli istanti innumerabili in cui non fui: il non-nato.

Bisogno fisico di disonore. Mi sarebbe piaciuto essere figlio di boia.

Con che diritto vi mettete a pregare per me? Non ho bisogno di intercessori, me la caverò da solo. Da parte di un miserabile forse lo accetterei, ma da nessun altro, foss’anche un santo. Non posso tollerare che ci si preoccupi della mia salvezza. Poiché la pavento e la fuggo, che indiscrezione le vostre preghiere! Orientatele altrove; in ogni modo, non siamo al servizio degli stessi dèi. Se i miei sono impotenti, ho tutte le ragioni di credere che i vostri non lo siano meno. Anche supponendo che siano quali voi li immaginate, mancherebbe comunque loro il potere di guarirmi da un orrore più antico della mia memoria.

Che misera cosa una sensazione! L’estasi stessa non è, forse, niente di più.

Disfare, de-creare, è il solo compito che l’uomo possa assegnarsi, se aspira, come tutto lascia supporre, a distinguersi dil Creatore.

So che la mia nascita è un caso, un incidente risibile, eppure, appena mi lascio andare, mi comporto come se fosse un evento capitale, indispensabile al funzionamento e all’equilibrio del mondo.

Aver commesso tutti i crimini, tranne quello di essere padre.

Di norma, gli uomini aspettano la delusione: sanno che non devono spazientirsi, che presto o tardi verrà, che accorderà loro la dilazione necessaria perché possano dedicarsi alle occupazioni del momento. Diverso è il caso del disingannato: per lui la delusione sopraggiunge contemporaneamente all’atto; non ha bisogno di spiarne l’arrivo, essa è presente. Affrancandosi dalla successione, egli ha divorato il possibile e reso superfluo il futuro. «Non posso incontrarvi nel vostro futuro» dice agli altri. «Non abbiamo un solo istante che ci sia comune». Perché per lui l’insieme del futuro è già qui.

Quando si scorge la fine nel principio si va più in fretta del tempo. L’illuminazione, delusione folgorante, dispensa una certezza che trasforma il disingannato in liberato.

Mi svincolo dalle apparenze e ciò nondimeno vi rimango impastoiato; o meglio: sono a mezza strada fra quelle apparenze e questa cosa che le infirma, questa cosa che non ha né nome né contenuto, questa cosa che è niente ed è tutto. Il passo decisivo fuori dalle apparenze non lo farò mai. La mia natura mi obbliga a ondeggiare, a perpetuarmi nell’equivoco, e se tentassi di decidere in un senso o nell’altro perirei della mia stessa salvezza.

La mia facoltà di essere deluso oltrepassa l’intendimento. Essa, che mi fa capire il Buddha, è la medesima che mi impedisce di seguirlo.

Ciò di cui non possiamo più impietosirci non conta e non esiste più. Si capisce perché il nostro passato cessi così presto di appartenerci per prendere forma di storia: di qualcosa che non riguarda più nessuno.

Aspirare, nel più profondo di sé, a essere tanto spossessati, tanto miserabili quanto lo è Dio.

Il vero contatto fra gli esseri si stabilisce solo con la presenza muta, con l’apparente non-comunicazione, con lo scambio misterioso e senza parole che assomiglia alla preghiera interiore.

Quello che so a sessant’anni lo sapevo altrettanto bene a venti. Quarant’anni di un lungo, superfluo lavoro di verifica…

Di solito sono così sicuro che tutto sia privo di consistenza, di fondamento, di giustificazione, che chi osasse contraddirmi, foss’anche l’uomo che stimo di più, mi apparirebbe come un ciarlatano o un rimbambito.

Fin dall’infanzia percepivo lo scorrere delle ore indipendente da ogni riferimento, da ogni atto e da ogni evento, la disgiunzione del tempo da ciò che tempo non era, la sua esistenza autonoma, il suo statuto singolare, il suo imperio, la sua tirannia. Ricordo con estrema chiarezza quel pomeriggio in cui, per la prima volta, di fronte all’universo vacante, non ero più che fuga di istanti ribelli ad adempiere ancora la loro particolare funzione. Il tempo si separava dall’essere a mie spese.

A differenza di Giobbe non ho maledetto il giorno della mia nascita; gli altri giorni, in compenso, li ho coperti tutti di anatemi…

Se la morte avesse solo lati negativi, morire sarebbe un atto impraticabile.

Tutto è; niente è. L’una e l’altra formula arrecano uguale serenità. L’ansioso, per sua disgrazia, rimane a mezza strada, tremebondo e perplesso, sempre alla mercé di una sfumatura, incapace di insediarsi nella sicurezza dell’essere o dell’assenza di essere.

Su quella costa normanna, a un’ora così mattutina, non avevo bisogno di nessuno. La presenza dei gabbiani mi disturbava: li feci fuggire a sassate. E udendo i loro gridi, di uno stridore soprannaturale, capii che proprio quello mi occorreva, che solo il sinistro poteva calmarmi, e che proprio per incontrarlo mi ero alzato prima dell’alba.

Essere in vita – improvvisamente sono colpito dalla stranezza di questa espressione, come se essa non si applicasse a nessuno.

Ogni volta che le cose non vanno e ho pietà del mio cervello, sono colto da una voglia irresistibile di proclamare. Proprio allora intuisco da quali baratri i meschini sorgano riformatori, profeti e salvatori.

Mi piacerebbe essere libero, perdutamente libero. Libero come un nato morto.

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BIOGRAFIA

Filosofo saggista, maestro dell’aforisma a cui ha affidato tutti i suoi pensieri (componendo un’opera tanto frammentaria quanto affascinante), rumeno è nato l’8 aprile 1911 a Rasinari (Sibiu) in Transilvania,vive solitario.
Figlio di un prete ortodosso e della presidentessa dell’associazione locale delle donne ortodosse, si laurea all’Università di Bucarest con una tesi su Bergson. Inizia ad insegnare presso i licei di Brasov e Sibiu: esperienza che ricorderà come catastrofica. Il suo primo libro, esordio letterario in cui appare il suo tormento interiore, è «Al culmine della disperazione» composto nel lontano 1934. Seguono «Il libro delle lusinghe« nel 1936 e «La trasfigurazione della Romania» nel 1937.
Nello stesso anno vince una borsa di studio grazie alla quale si reca a Parigi («la sola città del mondo dove si poteva essere poveri senza vergogna senza complicazioni, senza drammi… la città ideale per essere un fallito») da dove non tornerà mai più in patria.
Prima di partire per la Francia pubblica a proprie spese «Lacrime e santi». Nel 1940 esce il suo ultimo libro in romeno «Il tramonto dei pensieri»: da questo momento in poi scriverà solo in lingua francese («lingua adatta per il laconismo, la definizione, la formula…»).
Del 1949 il «Sommario di decomposizione» fa affiorare il vitalismo e la ribellione che già si erano mostrati negli scritti precedenti e lasciano il posto all’annullamento totale allo scetticismo, all’impossibilità assoluta di credere e sperare.
Nel 1952 «Sillogismi dell’amarezza», raccolta di aforismi corrosivi, cui segue nel 1956 uno dei suoi successi più duraturi, successo forse agevolato dal suggestivo titolo, «La tentazione di esistere».
Nel 1960 elabora invece «Storia e utopia» in cui si sottolinea come da qualsiasi sogno utopico basato su una presunta età dell’oro, sia essa passata o futura, si scatenino sempre forze liberticide.
Del 1964 è «La caduta nel tempo» le cui ultime sette pagine – dichiarerà in una intervista – «sono la cosa più seria che abbia scritto.»
In «Il funesto demiurgo», del 1969, approfondisce e chiarisce il suo legame con la tradizione del pensiero gnostico mentre ne «L’inconveniente di essere nati» (scritto nel 1973), fra i libri che ha sempre dichiarato di amare di più, la sua arte del frammento filosofico capace di squarciare il velo delle cose e delle emozioni raggiunge una delle sue vette più alte.
La sapienza esistenziale di Cioran si fa d’altronde sempre più scavo analitico e disperante sguardo sul mondo, approdando ad un nichilismo che non conosce confini e che oltrepassa lo stesso orizzonte filosofico per farsi rifiuto concreto della realtà e dell’esistenza. Lo comprova il successivo «Squartamento» (1979), in cui però si intravedono i suoi legami con il pensiero gnostico e orientale, visto come unico approccio davvero autentico alla realtà.
Del 1986 è «Esercizi di ammirazione», raccolta di ritratti di personalità della cultura internazionale (da Ceronetti a Eliade a Borges) ma contenente soprattutto un ampio saggio su Joseph de Maistre.
Nel 1987 pubblica «Confessioni e anatemi», «… libro-testamento, che testimonia a un tempo di una rottura totale e di una certa serenità fondata sul nulla.»
Emil Cioran è morto a Parigi il 20 giugno 1995.