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Mia nonna coltivava viole e basilico
accudiva i polli e i vitelli nella stalla
parlava con l’asino che scappava
scalciando e trascurando
tutti quelli che volevano acchiapparlo.
Lei lo chiamava, lo chiamava col suo nome
quello che ormai riconosceva al primo fiato.
Ogni volta dopo il viaggio dal campo o al campo santo
lei lo ringraziava staccandogli il carretto dalla schiena.

Non spendeva parole mia nonna
le sue sillabe erano semi da spargere nell’orto
il latte il pane la farina il burro ricotta e
conserva ogni giorno da curare
da governare tutto il regno di dio e tutto dentro una mano
vecchissima e leggera. Non c’era cosa che lei non amasse
non rispettasse: una gemma di filo, un tutolo di frumento
un legnetto, un rocchetto, una tazza sbeccata
un bottone in madreperla e quell’altro fatto a fiocco di metallo.
Li conservo in una scatola di latta con il proposito
fermo e sicuro di donarli a mia figlia: il nostro piccolo tesoro.
E la monnezza: era un reame dove d’inverno prendevano vita i pomi: d’oro, lucenti del sangue di mia nonna
che intanto invecchiava: si facevano muffe i suoi capelli
muschi le mani incolte eppure
non c’è cosa che dentro la mia bocca
non sia intera la sua lingua.