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Ci sono libri che leggiamo con leggerezza disimpegnata, per semplice passatempo, e libri che leggiamo più o meno volentieri, consapevoli che possono arricchire il nostro orizzonte mentale; libri cui ci dedichiamo a fatica per puro obbligo, scolastico o di altro genere, e libri con cui riempiamo il tempo solo perchè ci sono capitati sottomano, perchè in quel momento erano di moda e vendevano molto, ma poi sono arrivati a deluderci e li abbiamo finiti svogliatamente.

Ci sono libri che tiriamo fuori da vecchie librerie, e, sorpresi di non averli mai letti, divoriamo scoprendo di esserci persi qualcosa, a suo tempo; ma non è irrimediabile, un libro non scade come lo jogurt, va sempre bene.

Ci sono libri considerarti imperdibili, ma che non riusciamo a digerire, e classici che ci sorprendono per la loro freschezza e capacità di coinvolgerci; ci sono anche libri nati come opere di dal violento intento anticonformista, ma che a distanza di tempo ci appaiono datati e privi di mordente nel loro linguaggio superato.

E poi ci sono libri, rari e appunto per questo preziosi, che non sono semplici libri, ma autentiche esperienze di vita: segnano il nostro percorso umano e spostano le nostre coordinate mentali.

Naturalmente i primi libri che abbiamo letto, e quelli che abbiamo letto in determinati momenti della nostra infanzia e soprattutto nella prima adolescenza, sono in genere fondamentali; sempre che, come chi scrive qui – e non per vantarmi perchè non è merito mio – si appartenga ad una famiglia di lettori, si viva in una casa dove esistono i libri e fanno parte non solo dell’arredamento; questo oggi non è affatto scontato.

Però non solo in quei momenti formativi della vita esistono libri speciali, che tessono una tela coinvolgente nella mente e nell’animo del lettore e non la lasciano eguale a prima; in qualunque momento può capitarci fra le mani un libro che è ben più di un libro, è un amico che ti regala esperienze ignote o un nemico che ti scombussola, proietta una luce cruda ma onesta nel fondo del tuo animo, o, meglio ancora , si fa amare e odiare insieme, perchè traduce in parole il mistero ambiguo che è dentro ogni essere umano, ed è tutto sommato la sigla del mondo intero.

Questo mi è capitato con la quadrilogia di Elena Ferrante “L’amica geniale”, che, guarda caso, mi è stata consigliata da una cara amica dei tempi del liceo; mi sono fidata e non mi sono pentita del suggerimento. Ho acquistato il primo volume che ho letteralmente divorato, costringendomi con fatica a rallentare di tanto in tanto e rileggendo i passi che mi avevano maggiormente affascinata; i volumi successivi li ho acquistati e letti imponendomi delle pause, un po’ perchè temevo di rimanere delusa dopo il primo ( si sa che l’infanzia è il periodo magico da esplorare per qualunque scrittore, che non sempre poi riesce a mantenersi all’altezza quando prosegue inoltrandosi nella maturità dei suoi personaggi), un po’ perchè questi libri hanno accentuato il mio vizio di leggere troppo velocemente, e sto cercando – inutilmente – di non cadere in questa tentazione.

La semplicità apparente della storia – un’amicizia femminile che dura una vita, inizia nella prima infanzia e si prolunga, con alterne fortune, interruzioni, momenti “magici” e buchi neri di scostamento e di odio vero e proprio, durante l’adolescenza, la maturità e la vecchiaia – si arricchisce di sfumature e rimandi molto complessi, sul piano umano, psicologico, politico e perfino filosofico, pur rimanendo sempre la leggibilissima e avvincente storia di due persone e di uno stuolo di comprimari, sullo sfondo di un quartiere di Napoli, poi di più città fino a coinvolgere la geografia politica dell’intera seconda metà del Novecento, europea e non solo.

Si tratta di una narrazione densissima, sempre attenta al particolare fisico e al gesto che proietta il personaggio davanti al lettore, glielo impone quasi; i fatti si susseguono ai fatti ma celano sempre un significato sotto la superficie scura o brillante, dietro ogni angolo di pagina c’è una sorpresa, più come nella vita che come nei film.

Il linguaggio può essere violento o accattivante, ma sempre carico di quella apparente naturalezza che viene da lunga limatura e studio, tagliente e preciso, privo di connotati folkloristici o di autoindulgenze. Sa esprimere l’affetto e la cattiveria, il volo pindarico e la meschina quotidianità; il lato oscuro e quello luminoso della vita, a volte contemporaneamente.

Niente è come sembra, nel rapporto tra le due bambine e poi ragazze e donne, come la sostanza non coincide con l’apparenza nei rapporti umani, nel piccolo mondo del quartiere, che si allarga mano a mano svelando che la fuga dal malessere, dalla violenza, dalla miseria è inutile perchè ad ogni scatto di superamento, ad ogni possibile redenzione, subentra una nuova delusione, una caduta, lo svelamento di nuove e più tremende delusioni umane, affettive, politiche, sociali.

Il terreno su cui vivono Elena e Raffaella, chiamate Lenù e Lila, è lo stesso che un terremoto scuote alle radici, e poi nulla è più sicuro come prima; è il terreno di Napoli, stratificato di caverne informi e pronte a squarciarsi e inghiottire persone e cose tirandole sotto, più sotto, dentro la storia con le sue crudeli vicende e prima della storia stessa. Ma così è pure il terreno su cui poggia chiunque, il terreno dell’Italia e del mondo intero.

Le due si sorreggono a vicenda per rimanere in piedi e uscire dal disastro, si scambiano a vicenda i ruoli di leader, chi vince in realtà di volta in volta è perdente, sottili o evidenti incomprensioni sparigliano le carte; sotto l’apparenza selvaggia e determinata Lila svela un po’ alla volta debolezze di base, mentre il riscatto sociale della più tranquilla Elena, incerta da bambina, si dimostra col tempo assai labile e privo di consistenza. Hanno sempre avuto dentro di sé, anche quando non ne capivano l’origine, il “senso del disastro”; l’orco abitava sopra di loro ma anche in cantina, e la loro mamma non aveva tempo né sapeva raccontare fiabe con un finale rassicurante.

Vivono intensamente ogni attimo della loro vita, ma, forse perchè nel quartiere violento non hanno mai potuto essere veramente bambine, amate e protette, potranno alzarsi, cadere e rialzarsi di nuovo, ma in definitiva, alla fine dei tempi, nel rendiconto della vecchiaia il riscatto di Elena avrà un sapore di solitudine e di cenere; Lila, dal canto suo, cederà al suo ricorrente ed irresistibile impulso di svalutarsi fino all’annullamento, progressivo e poi totale. Forse. Perchè nulla è certo, nel finale di questa storia, iniziata come fiaba nera e finita in modo simile: forse Lila, spirito nero di Lenù (ma forse è vero l’inverso), Lila che ha sofferto la più assurda e crudele delle punizioni per una madre, cioè la sparizione di una figlia bambina – forse rapita, forse uccisa – vive in qualche sua altra, impensabile dimensione….