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Meno nota di Freya Stark o di Isabelle Eberhardt, Annemarie Schwarzenbach è una delle scrittrici viaggiatrici degli anni 30. Nella sua breve vita (morì nel 1942 a soli 34 anni) Annemarie, che fin da bambina aveva individuato il senso della sua esistenza nella scrittura, riuscì a pubblicare solo un breve romanzo a sue spese, una novella (pubblicata in italiano col titolo Sybille), un libro di viaggio, la biografia di un alpinista morto tragicamente in Himalaya e il poema in prosa La Valle Felice. Nessuno di questi ebbe successo. Benché godesse della stima di scrittori celebri come Roger Martin du Gard, Eric Marie Remarque, Thomas Mann, non fu mai presa sul serio.  Fin dal 1933 si dedicò allora al giornalismo, scrivendo reportage dai paesi stranieri in cui finì per vivere la maggior parte dei suoi ultimi nove anni. I suoi articoli – che le garantirono una sia pur minima indipendenza economica dalla sua ricca famiglia – ebbero una certa fortuna, e la resero un personaggio noto in Svizzera. Ma agli occhi del mondo, dei suoi amici letterati e della sua famiglia non fecero di lei una scrittrice.

Lasciò anche alcuni racconti inediti che Melania Mazzucco, che già le aveva dedicato un libro ispirato alla sua vita Lei così amata, tradusse e pubblicò ne La gabbia dei falconi. La traduzione dei racconti, l’ordine e soprattutto l’interessante e ampia postfazione – una sorta di libro nel libro – intitolata Il romanzo impossibile di Annemarie Schwarzenbach, – costituiscono una sorta di omaggio che la Mazzucco riserva alla figura ambigua e affascinante della giornalista e fotografa.

La scrittrice analizza le corrispondenze tra i racconti di viaggio della Schwarzenbach e la sua vita e ci fornisce molte preziose indicazioni

per comprenderne la figura. Possiamo così seguire le vicende della vita di Annemarie dal tempo in cui progetta un primo viaggio in Oriente coi fratelli Mann, poi naufragato per il suicidio del quarto membro del gruppo, Ricki Hallgarten, al conflitto con la madre che la vorrebbe separare dagli scapestrati fratelli, al primo viaggio in Persia, ai viaggi successivi, al suo percorso di scrittura, ai suoi successi e insuccessi.

In Annemarie Schwarzenbach c’era un vitalismo esasperato e il fuoco di fila di viaggi – da Ktesifonte allo Shatt-el-arab, da Beirut all’Unione Sovietica, dall’Afganistan al Congo, dal Kuwait a Bagdad a Ur, a Najaf, da Babilonia a Kasvin – esprimono sì una fondamentale insoddisfazione, ma sono anche il segno della sua curiosità di conoscere, di capire. La attraggono gli spazi sconfinati degli altopiani asiatici, le distese di sabbia dove l’uomo si sente una minuscola comparsa. Osserva gli orientali, la loro diversa concezione della vita, la loro indolenza e rassegnazione, lo scarso valore che attribuiscono alla vita umana.

Da lontano può ripensare all’Europa con maggior lucidità e forse, perduta nelle sconfinate distese degli altipiani persiani, dove, attraverso le rovine, il passato è onnipresente e si ha ferocemente il senso del trascorrere dei secoli e del succedersi inesorabile delle civiltà, è in grado di vedere con maggior lucidità l’orrore che si sta addensando sulla sua terra.

Siamo negli anni Trenta, sullo sfondo di un’Asia ospitalmente aperta agli occidentali, lasciata alle spalle un’Europa su cui si addensano le nubi del nazifascismo e di una guerra che si presenta imminente, i personaggi de La gabbia dei falconi si confrontano soprattutto con i loro demoni interiori.

La vita ha le dimensioni dell’avventura, hanno alle spalle famiglie abbienti, talvolta straordinariamente ricche come quella di Annemarie, sono reduci da vacanze invernali a St Moritz e con la velocità consentita dai nuovi mezzi di trasporto raggiungono l’Asia, hanno lasciato un’Europa sfatta, stanca, noiosa dove si parla solo “di disoccupazione, di fascismo… persino della prossima guerra mondiale”.

Ma l’Europa è sempre nei loro pensieri e una nostalgia dolorosa si insinua negli animi. “Cosa volevamo? il Lido e il Palace, le strade, la sera, la funivia, la rapida salita nel cielo blu dell’inverno? sogni di notti d’estate e nostalgia? oh nostalgia! oh Europa!”

La nostalgia corrode gli animi dei personaggi (e di Annemarie). Sono liberi, di una libertà che alle volte mette il capogiro ma, come i falconi, non sono liberi davvero, spiccano il volo ma poi c’è sempre una gabbia dorata ad attenderli, ognuno ha un padrone, anche se possono essere diversissimi i legami che impediscono la libertà. Assetati di sensazioni e di esperienze si avventurano, osano, si interessano a ogni campo di conoscenza, ma sono troppo intelligenti per entusiasmarsi. Conoscono i limiti delle passioni umane. L’archeologia, che occupa alcuni di loro, non dà il brivido della scoperta. Nella vertigine del passato colgono soprattutto la disperante profondità del tempo, e quell’infinito si somma al nulla che i desolati altopiani della Persia sembrano suggerire. Colgono nella vita l’attrazione della morte.

Un cupio dissolvi aleggia tra le feste in stampo britannico e le libagioni fino all’alba, nelle conversazioni garbate e nei pettegolezzi da salotto europeo trasportato in Oriente. La carica di autodistruttività che caratterizza la loro esistenza (e quella della Schwarzenbach) sembra per qualche aspetto avere radici nella stessa sconfinata libertà che la dimensione del viaggio concede (o il viaggio è solo un rimedio – o un placebo, – a una situazione esistenziale? oppure ancora il male è alle loro spalle – amatodiato – e sempre lì, nell’Europa lontana che non possono dimenticare?)

I personaggi dei racconti, – archeologi e avventuriere, soldati e spie, diplomatici, veterinari e prostitute – nascono spesso da un incontro reale, che nel tempo si arricchisce di risonanze simboliche, e si trasfigura in racconto e letteratura.

Annemarie Schwarzenbach è un’autrice fortemente autobiografica. La critica letteraria del suo tempo la censurò severamente – e altrettanto severamente la censurò il conformismo della società, che le rese impossibile pubblicare alcuni dei racconti a sfondo omosessuale. Così, per ragioni opposte e convergenti, Annemarie Schwarzenbach cominciò a spersonalizzare la sua scrittura – trasformando se stessa prima in un Giovane anonimo e poi in una sorta di Profeta vagabondo e i luoghi reali dell’Asia in un’allegoria della sua mente.

La figura della madre, Renée Wille-Schwarzenbach, dominò la sua breve esistenza. Si oppose sempre al sogno di Annemarie di diventare una scrittrice, tentò di separarla dai Mann, giudicando che avessero una cattiva influenza sulla sua condotta. Si oppose a tutto ciò che era importante per Annemarie e Annemarie ne era perfettamente consapevole, ma non riuscì mai a recidere il legame che la univa alla madre.

I fratelli Mann rappresentano per Annemarie “l’altra famiglia”; li lega un vincolo molto forte che mescola complicità intellettuale e sensualità. Annemarie Schwarzenbach conobbe i Mann quando aveva poco più di vent’anni. La famiglia Mann – ricca, colta, influente, politicamente impegnata – assomigliava alla sua. Con una differenza: Thomas Mann era uno degli scrittori più celebri del mondo (aveva vinto il Premio Nobel nel 1929), Klaus Mann era un giovane scrittore trasgressivo ed Erika un’attrice affermata. Annemarie vide in loro ciò che voleva essere: in un certo senso fu adottata dai Mann. Nemmeno l’avvento del nazismo, che costrinse i Mann all’esilio, interruppe questo rapporto. Ciò che davvero li separò fu proprio la strada che Annemarie imboccò nell’autunno del 1933: la via dell’Oriente. Il viaggio, e in particolare i viaggi in Persia costituiscono una fuga anche da loro. I Mann videro nel viaggio in Persia – che giudicarono evasivo in quel momento cruciale per la storia dell’Europa – un tradimento, e col tempo Annemarie assunse il loro punto di vista.

Viaggiare divenne per lei nello stesso tempo una necessità (per sfuggire alla famiglia, al nazismo, alle scelte cui l’obbligava la situazione politica europea, per conoscere se stessa e sfidare i propri limiti, per cercare un’altra patria possibile) e una colpa: questo stato d’animo permea la sua prosa di viaggio, e rende empatica la sua descrizione degli europei naufragati in Oriente – ciascuno costretto al suo personale esilio interiore.

La gabbia dei falconi assieme a Morte in Persia e la Valle felice formano una trilogia dedicata all’Oriente. Tutti scaturiscono dai viaggi e dai soggiorni in Medio Oriente e in Persia fra l’autunno del 1933 e quello del 1935. Hanno in comune personaggi, episodi, luoghi, sensazioni, disillusioni. Leggendoli, si ha l’impressione che Annemarie Schwarzenbach abbia tentato di dare una forma letteraria a quell’esperienza decisiva nella sua vita.

Quei due anni significarono la fuga dalla famiglia, il tentativo fallito di trovarsi un mestiere concreto nel mondo (l’archeologa), lo sfaldamento del rapporto coi Mann, la caduta nella droga, un matrimonio fallito e varie storie d’amore sfortunate.

La Persia, che Annemarie Schwarzenbach definisce un paese dalla “tristezza atroce”, diventa anche un luogo per lei ideale. Quel paese, che in un primo momento le era sembrato indicibile, diventa la sotterranea fonte della sua ispirazione.

L’opinione di Annemarie sulla Persia è interessante, tanto più se confrontata con quella di Maud von Rosen, che la visitò negli stessi anni. La contessa svedese, che amava la vita, che si incuriosiva di tutto, lo trovò un paese divertente e stimolante: si disinteressò del tutto ai monumenti e alla storia e cercò di conoscere soprattutto gli iraniani. Annemarie lo vide invece come uno spettrale limbo sospeso fra la vita e la morte.

In Iran certo è facile vedere le tracce del passato coperte di polvere, la vanità della storia, la nullificazione del passato, ma indubbiamente l’Iran è anche un paese giovane, in cui la giovane età degli abitanti (più del 65% della popolazione ha meno di vent’anni) contrasta con l’antichità senza tempo del paesaggio, dandogli una grande vitalità.

Sul desolato ed essenziale paesaggio persiano Schwarzenbach proiettò soprattutto la propria desolazione interiore, il proprio smarrimento e la propria solitudine.

Finì per identificarsi completamente con quel paesaggio spoglio ed essenziale, quasi metafisico.

Lo trasformò in un simbolo del destino dell’uomo, insignificante come sabbia a cospetto di una natura spietata.

(marina torossi tevini)