[sulla felicità in tre quadri di Sergio Padovani]
Questo genere d’uomo sa anche che è vana opinione credere il fato padrone di tutto, come fanno alcuni, perché le cose accadono o per necessità, o per arbitrio della fortuna, o per arbitrio nostro. La necessità è irresponsabile, la fortuna instabile, invece il nostro arbitrio è libero, per questo può meritarsi biasimo o lode.
Epicuro, Sulla felicità
1. La finzione. Queste bestie …
Che c’entra il male con la felicità? Possibile che paradossalmente la purifichi dall’etica e la dia per quella rivelazione tronfia, inaudita che non dà neanche piacere? Quello che articola Sergio Padovani è un terzo grado, un iter attraverso una sua propria terna in cui i livelli di un senso astruso sembrano indicare qualcosa di indefinibile attraverso tre immagini altamente definite. Un totale capovolgimento che riguarda anche la morfologia dei corpi e che riduce tutto a pensare due semplici parole, come felicità e piacere in un rapporto tra loro, molto meno noto di quello che si è creduto fin qui e più arduo di quanto si sia disposti a credere. Che c’entra il piacere con la felicità nel mondo pittorico di Sergio Padovani? Forse nulla. Nella prima immagine, in quello che sembra un sotterraneo di gente nascosta nel suo male, che dal suo male sarà stanata, l’immagine è ora e per sempre congelata nell’umanità stolida delle piccole mosse dettate dalla ripetizione. La ripetizione di un’allucinazione lasciva dietro cui non campeggia neanche più il simbolo di quel potere che la richiede. Padovani spiega “Il primo quadro è Queste bestie.. il punto di partenza è stato immaginare lo scandire delle ore nel bunker di Hitler. I segreti, le cose non dette, gli sguardi di troppo… i sorrisi di circostanza … Mi colpisce pensare a delle stanze, dei letti, dei tavolini segregati nel sottosuolo e adornati di ornamentale normalità. Dove un sussurro equivale ad un grido. Dove il silenzio è assordante. Dove l’irreale è reale. Una normalità/felicità meravigliosamente finta … mostruosamente perfetta.” Ma questo è solo quello che nel suo crescendo Padovani riserva alla finzione, come un vero e propria agire nella ricerca di una felicità intesa non in quanto barlume da elevarsi a consapevolezza ma spasimo casuale nell’ambito faceto di volti svestiti di ogni logica con la leggerezza che s’impone e impone l’abitudine dei corpi a godersi.
La ricerca è il secondo grado, il livello successivo in cui il candore della felicità in quanto aspirazione si rivolge a qualcosa di materiale che la deliberi realizzabile e vi trova un sentimento bieco, predatorio che in effetti gli appartiene. Scrive Padovani, riguardo il “cercare” “Nel secondo quadro il pensiero è volto alla ricerca della felicità allo stato puro. Le immense rivoluzioni, soprattutto interne, che facciamo per raggiungerla … Forse non immaginando di dover fare i conti con i nostri veri desideri, le nostre ossessioni, le nostre manie. Gloria è un quadro scuro, diretto verso il fondo … l’immagine deve andare a far emergere un sentimento sconosciuto anche a noi stessi. Portare alla luce il relitto di qualcosa che credevamo inesistente o sepolto. E’ il dazio che si deve pagare per osservare da vicino come sarebbe la VERA felicità di ognuno di noi”. Le figure di Padovani sono come l’inizio euforico di qualcosa di mancante, un apice tagliente di troppa umanità rispetto alle figure pseudo umane che rappresenta, il ricordo di una moralità affondata attraverso una superficie liquida che la riverbera, continuamente diseguale, paradossale, sfinita immorente tenerezza, detratta come un calco di perfetta mancanza da musi desolatamente inconsapevoli.
3. La rivelazione. La felicità …
Infine la felicità si rivela attraverso l’ultima creatura ma solo per quello che l’artista nella sua poetica la crede “ Nel terzo quadro La felicità… appunto, è la definizione, il raggiungimento di un concetto. Niente di luminoso, abbagliante e improvviso… Qualcosa che ci scivola accanto e non è detto che riusciamo a vedere.” La felicità possibile che sia un movimento liquido forse relazionato al suo oggetto attraverso una intersezione di simboli, di correnti più che di gesti, flussi che casualmente colludono su uno strano fondale di reciprocità le cui tempistiche non è detto neppure che coincidano ma formano visioni scambievoli, che appartengono al fruscio incerto di un’emersione seppure inconsapevole e allucinata, a una galvanizzazione senza poi. Anche la felicità perciò per l’artista “fa parte del concetto di “percorso” appunto, di strada da seguire fino in fondo che, per me, è il significato primo del dipingere”.
“La felicità è una cosa che striscia …” s.p.
di Viviana Siviero
I Paradisi perduti sono sconosciuti, chi ci è stato non ha fatto ritorno o almeno non ne ha fatto parola. Su di essi non abbiamo certezze, ma solo concrete immaginazioni, nella maggioranza dei casi considerate fantasia, più raramente, profezie. Ci sono occhi che vedono luoghi altrimenti ignorati, abitati da ninfe, silfi, pigmei, salamandre e altri esseri che si rivelano nella loro diversità come emanazioni magiche, comunque deroganti dalla norma. Coloro che possiedono il dono di vedere sono bambini; quelli che lo mantengono, imparando l’arte di mostrarlo, sono artisti: concretizzandolo nel suono, nella materia o appigliandosi ad altri mezzi espressivi, per creare, ogni volta, una piccola Apocalisse.
[dal catalogo della mostra L’Apocalisse ti dona! Personale di Sergio Padovani, 15 Marzo – 5 Aprile 2011 Wannabee Gallery – Milano]
non vedo felicità in questi quadri e nemmeno un lontano rimando, un’eco di felicità; c’è, forse, autocompiacimento nel mostrare il lato oscuro della sua felicità, che appartiene soltanto a lui, ed è qualcosa di assolutamente lontano dalla felicità semplice e complessa, completa e totalizzante che investe o sfiora la nostra vita.
i quadri sono interessanti e, forse, occorrerebbe vederne altri per capire il suo messaggio. per certi versi queste immagini mi hanno ricordato la pittura sofferta di Schiele, nonostante il bianco e nero.
sono totalmente colpita dall’articolo di “presentazione” di queste opere pittoriche . scritto da viviana scarinci: una capacità di scritttura e di addentramento nella visione che mi pare tocchi punti nodali con una espressività fredda e lucida dai mille riverberi..
Forse il modo migliore per tentare di dare concretezza al potere evocativo ( su un sottofondo di torbidezza che interroga chi guarda) che discende da queste opere di Sergio Padovani
un percorso complesso e irto di ostacoli – finzione – ricerca – rivelazione – che ha come meta ultima il riscatto, si può andare oltre quello da cui siamo abitati, oltre i nostri mostri, si può sperare in quel movimento liquido e amniotico e doloroso che dalla ristrettezza e dal buio del canale in cui siamo costretti ci porterà infine alla luce. un artista complesso e a me sconosciuto (che sto faticando a comprendere) ma ringrazio Viviana per questo suo profondo parlarne che invoglia ad andare oltre e più a fondo della superficialità facile nella quale spesso mi piace crogiolarmi e sono contenta oggi d’aver scoperto grazie a Viviana questo artista. grazie! ciao antonella
Vi ringrazio per l’attenzione che avete posto in un lavoro di non facile lettura. Il mio approccio alla poetica visiva di Padovani non è infatti critico come può esserlo quello della Siviero. E neanche vuole esserlo. Con Padovani abbiamo stabilito un metodo che non parte dalle sue immagini, né dalle parole che vi si possono accostare criticamente ma da un tema, in questo caso La felicità, spiegato dall’artista con tre quadri e una prosa, elaborati successivamente da me come sopra. E’ una strada che vale in quanto tale e non in funzione di una meta, perciò il percorso non è né facile da battere, né la strada, per chi voglia, semplice da seguire. Quello che più di tutto mi ha convinto a imbracarmi in un’impresa di cui La felicità non è che il primo passo, è la forte presa sulla contemporaneità che ho riconosciuto nell’immaginario di Padovani. Presa che spesso la scrittura poetica manca, non riuscendo ad esplicitare in un dettaglio una visone immediatamente attinente alla vastità di quello che chiamiamo il presente. Le creature di Padovani a mio avviso generano il sentimento di questa preclusione. L’impedimento è la mancanza di una semplice mozione che diventi e-mozione e le leghi in uno scambio plausibile con quello che hanno di volta in volta intorno. Riuscire a dire questo, sondando il concetto di felicità che è in assoluto credo l’aspirazione più comune, mi ha coinvolto in una visone galvanica che è appunto la strada che stiamo tuttora battendo. E che non credo diventerà un assunto, un’indicazione, un raggiungimento, perché una parola conclusiva su queste disumanità detta anche solo con una parvenza di certezza, sarebbe la luce artificiale che sbiadisce la necessità incolmabile che muove in questi strani esseri la domanda inquietante che pongono al nostro presente.
Grazie ancora.
Europa: Italia.
Società civile: belli ricchi e intelligenti.
Bidonville: vitto alloggio e affetto.
Le costruzioni in poesia
una specie di teatro
che racconta la realtà data
qui sul pianeta Terra c’è tutto un bel vivere
e c’è il Caso
il grande Dispensatore
di tutto ciò che è buono, bello e terribile,
se te la cavi
il disimpegno nell’amore è un’ovvietà,
essendo uno sprovveduto
limito il dire a sintesi ambigue,
nelle bidonville immaginiamo
che in ogni ambito ci siano codici di opportunismo
che fanno selezione
e quello è il merito,
le dita ingioiellate del merito
sembrano non accontentarsi del giusto compenso,
pretendono la pensione d’oro,
la parcella d’oro,
la super figa,
l’evasione fiscale possibile,
se non trovano il parcheggio portano pazienza,
gli escrementi del cane non li lasciano per strada
come fanno i comunisti.
Sia lodato il facile profitto!
Sempre sia lodato!
Tu: e quindi?
Io: e quindi i baci te li dispensa il caso.
Ciao Enrico. Se nel tuo commento c’è un’attinenza col post, me la spieghi in parole povere? Temo mi sia sfuggita. Grazie
Un articolo completo, complesso, convincente, coinvolgente per un artista che non conosco e per un argomento che affascina l’uomo dalla notte dei tempi .
Anche a me non sembra attinente il commento del signor Enrico.
Forse era solo un modo per farsi conoscere!
Ciao
Sara Ferraglia
in poche parole? Se devo difendermi è difficile.
Intanto la penso come Spinoza, diversamente dal primitivo Epicuro, non esistono fini ma connessioni necessarie : il libero arbitrio è un illusione.
La suscritta poesia è una rappresentazione, una messa a fuoco, fra le tante possibili , nel vedere (*) nel post, in quei quadri una modalità della realtà da aggiungere. Ciao.
No, e difenderti da che Enrico? sei tra fanciulle -:)
Adesso sì che il tuo intervento è più chiaro. Quindi si tratta di una lettura ulteriore che parte essenzialmente dalle immagini di Padovani. Un’altra riscrittura, in questo caso poetica, da affiancare. Vista in quest’ottica i tuoi versi ricalcano in altro modo i tre passi del percorso, forse: la finzione, la ricerca, la rivelazione. Quindi (correggimi se sbaglio) una cosa tipo:
“Le costruzioni in poesia
una specie di teatro
che racconta la realtà data
qui sul pianeta Terra c’è tutto un bel vivere
e c’è il Caso
il grande Dispensatore…”
la finzione
“immaginiamo
che in ogni ambito ci siano codici di opportunismo
che fanno selezione
e quello è il merito …”
la ricerca
“gli escrementi del cane non li lasciano per strada
come fanno i comunisti …”
la rivelazione
Quanto al primitivo Epicuro, quanto hai ragione …
Adesso ho capito, credo. Grazie del tuo contributo.
E grazie, Sara -:)
E’ una mia poesia del 2007 nichilismo giocherellone niente di sistematico, si aggancia al percorso, spero, dove la finzione borghese nega: spesso il male di vivere ho incontrato,
la ricerca di un ordinario meno a vanvera se il caso ci è ostile , la rivelazione, la solita : il voluttuario e il bello annullano la fatica e gli umani dilagano. ciao.