Opera di Francesco Musante

Opera di Francesco Musante

Fu il rumore metallico dello scatto dell’accendino che si richiudeva a farla decidere. Nel buio distingueva solo la sagoma scura, approssimativa, di lui che fumava in silenzio, addossato allo stipite della porta. Sul muro chiaro vagolavano le ombre mutevoli del fogliame mosso dalla brezza notturna, mentre un gruppo di falene sbatteva indolente contro il lume del vialetto. Si sfregò le braccia nude cercando tepore tra le mani e si accoccolò sul primo gradino della soglia. Lo guardò da quella posizione. Dal basso, suo marito appariva un’ imponente polena allungata sul cortile, un’escrescenza muraria di quella casa isolata in cui avevano deciso di insediarsi.
Si alzò indispettita da quel sentirsi sovrastata e si avviò lungo il vialetto ghiaioso che scricchiolava sotto le suole. Lui si staccò dalla parete e la affiancò tenendole il gomito con la punta delle dita. Aveva sempre avuto questa abitudine. Sembrava voler guidare le persone nella sua stessa direzione senza ostentare la sua volontà. Era come sentirsi soggiogati da qualcosa di sfuggente, a cui non ci si poteva sottrarre, un modo appena percettibile di trovarsi in suo potere.
Avrebbe voluto camminare sola nel buio, abbandonarsi all’umido della notte, crogiolarsi nei suoi pensieri, senza la sua presenza.
Accelerò il passo, allontanandosi dall’uomo, mentre questi le ricordava che l’indomani si sarebbero dovuti incontrare con il dottor Maestri per l’acquisto del cavallo di cui stavano trattando l’affare.
Si fermò di colpo e si girò verso di lui. Ecco, adesso gliel’avrebbe detto, non avrebbe esitato, era il momento giusto. Nel buio le parole sarebbero uscite facilmente, senza lasciare traccia sul viso ossuto che le stava dinnanzi. Avrebbero fatto il loro lavoro in modo apparentemente pulito, senza sbavature d’emozioni, dirette a svolgere il loro mestiere di messaggere, quasi neutre.
“Questa notte – la anticipò lui con tono malinconico – mi richiama quella dell’ottobre scorso, quando ci perdemmo con i cavalli nei boschi del fiume, ricordi? C’era luna piena come questa sera, la stessa brusca aria e l’umidità che saliva dal terreno. E tu avevi l’identica agitazione e lo smarrimento muto che mi pare di cogliere ora.”
Lei chinò il capo, improvvisamente pesante, e abbandonò le braccia lungo i fianchi. Pensò che lo detestava, non riusciva a tollerare la sua tempestiva capacità di frapporsi tra lei e le sue decisioni, di far virare il corso dei pensieri verso direzioni non previste.
Incrociò le braccia e con la punta del piede scavò una linea retta nel tratto di ghiaia che la separava dalle scarpe del marito e la ripassò più volte.
Ricordava quella notte benissimo, quando, a causa del suo effervescente desiderio di autonomia, lo aveva convinto a scegliere un percorso alternativo al suo per tornare alle stalle.
In sella a Luna, cavalcando tra i pioppi, che come fantasmi popolavano le golene, si era sentita libera, capace di fare progetti, di pensare a un futuro diverso, lontano da quel luogo. Dondolata dal trotto della cavalla, si era abbandonata a fantasie di cambiamento, di riscatto. Aveva inspirato profondamente l’aria muschiata del sottobosco e il vapore di resina delle piante, ascoltato i suoni e le voci che si nascondevano nell’oscurità. Aveva ricacciato la paura primordiale che l’assaliva quando affrontava l’ignoto, il buio, l’imprevisto e si era sentita piena di energia, quasi luminescente.
Poi al ritorno, una volta giunta alle stalle, lui non c’era. L’aspettò a lungo, poi non vedendolo arrivare, salì di nuovo in sella per tornare a cercarlo, senza sapere che anche lui stava vagando lungo il suo probabile tragitto, per cercarla a sua volta. Si rincorsero in tondo per buona parte della notte, sempre più affranti e disperati, con l’angoscia che toglieva il respiro e la ragione.
Si incontrarono finalmente nei pressi dell’Isola degli Internati, quando ormai il nero della notte virava verso il viola, ammorbidendosi. Rimasero uno di fronte all’altra per alcuni minuti senza capacità di gridarsi tutta la rabbiosa disperazione accumulata, con gli occhi che saettavano mute accuse, arrotolandosi nelle mani le briglie ciondolanti del cavallo.
Fu lui a parlare per primo, con la voce rotta dall’ira, sporgendosi verso di lei.
Il giorno versava rapidamente la sua luce su quella distesa di sabbia e acqua e lei poté vedere negli occhi di suo marito tutto il livore che lo consumava per quella sua scellerata decisione, ma anche percepire, nel fiato caldo che la investiva, tutto il suo desiderio.
Si amarono lì, sullo strato di fogliame secco che ricopriva il terreno del pioppeto, si amarono con rabbia e forza, con tutta la forza necessaria per scacciare gli spettri dell’abbandono,  della perdita.
Quell’episodio li aveva come rifocillati da una penuria di desiderio, aveva spianato grinzosi avvallamenti dove si accumulavano risentimento e astio, addolcito le asprezze dei contatti quotidiani. Li aveva portati a una parvenza d’amore.
Poi erano arrivati altri giorni, qualsiasi, giorni fatti di parole consuete, di riti consumati frettolosamente, di propositi disattesi, di pretesti.
Ed ora c’era l’invito del professore per Ginevra, una ricerca che l’avrebbe tenuta lontana per molti mesi o forse più. Si era presa tempo per decidere, per capire dove stava il meglio, il giusto, cosa davvero aveva preso forma dentro di lei, cosa ancora poteva aspettarsi.
Il silenzio che ovattava il cortile venne interrotto dallo stridio di un gufo che si abbandonava a una perlustrazione predatoria. Non poté fare a meno di pensare che forse nel nido c’erano piccoli famelici da nutrire con qualche roditore.
Sciolse le braccia che le premevano contro il petto e la legavano in un nodo di rifiuto e prese sottobraccio suo marito ritornando sui suoi passi, verso casa.
 “Vieni – disse rabbrividendo- fa freddo, rientriamo.”
Prima di richiudere la porta alle sue spalle, alzò gli occhi verso il cielo buio e scorse nitido e brillante il disegno delle stelle sul suo capo.