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Eccoci qui. Tutte e due sedute con la schiena dritta pronte ad affrontare il terribile giudizio della commissione che ci è di fronte.
Io sono già stata ascoltata da sola mentre tu, persa nei tuoi pensieri irraggiungibili, ti guardavi attentamente le pellicine intorno alle unghie.
Ti ho osservato mentre fiumi di parole mi investivano rimbalzando sulla mie pelle indurita dal tempo e dal dolore. Avrei voluto essere libera di piangere perché il mio cuore si stringe ogni volta che ti vedo così, lontana da me, dal mondo che ti circonda nel quale sei stata accolta con difficoltà, ma non potevo, non mi è consentito versare lacrime per sgravarmi dal dolore.
Sì ho capito che qualcosa non va, che tutti sono preoccupati per il tuo cambiamento, lo sono anch’io, ma quel che mi sfugge è come posso fare per aiutarti, quali strategie dobbiamo attuare per riportarti a noi.
Tu, bambina mia, sei un enigma che non riesco a decifrare. Non ne ho i mezzi o forse le capacità. Tu sei un meraviglioso mistero che mi avvince e mi fa disperare mettendomi al cospetto delle mie incapacità e della mia inadeguatezza.
È vero, oggi molti si preoccupano di voi ragazzi che il destino ha voluto punire per colpe mai commesse, ma nessuno pensa a noi che dobbiamo vivere questa realtà che ci ha colto di sorpresa ferendoci nel più profondo del cuore.
Ti vedo piccola mia e so che sei preoccupata, questa convocazione non la comprendi nella sua dimensione concreta. Tu sai solo che ti devono dire qualcosa, magari temi di essere sgridata ma il perché ti è oscuro. Tu non hai fatto altro che manifestare inconsapevolmente il tuo disagio.
Tutti coloro che di te si preoccupano, e non certo solo perché obbligati, vorrebbero darti la giusta indicazione ma sanno che si tratta di una battaglia difficile, forse persa in anticipo, perché non è facile far ragionare da “normale” chi “normale” non è.
Eppure io lo so che dentro di te ci sono tante piccole isole di sentimenti meravigliosi ma che purtroppo stentano a riunirsi e fanno di te un fantoccio slegato da mille emozioni.
Sono tua madre e da oltre vent’anni combatto al tuo fianco cercando di farti trovare una strada per il futuro che mi appare sempre molto buio, ma le lotte stanno assorbendo tutte le mie energie spossandomi tra una salita e una discesa dell’entusiasmo, troppo spesso frantumato dalla realtà.
Dai, amore mio, adesso tocca a te, non temere io sono qui anche se tu non riesci ad entrare nel senso della mia presenza anzi forse ne sei preoccupata temendo il mio giudizio.
I primi momenti sono di assoluto silenzio. Io ti guardo di sottecchi e ho la chiara percezione della tua sofferenza. Il labbro inferiore è proteso in avanti tremolante mentre la bocca ha assunto la smorfia di timore che ben conosco. Non mi guardi. È come se non volessi considerare la mia presenza. Non vuoi chiedermi aiuto. In fondo stiamo qui per parlare di te, del tuo lavoro, della tua vita e tu ormai ti senti grande e non hai più bisogno di me.
Un nodo in gola mi sta soffocando. Ho voglia anch’io come te di piangere ma sappiamo entrambe che non posso. Tu devi dimostrare la tua forza, io devo far vedere a te che sono forte. Ma in queste due donne sedute l’una al fianco dell’altra c’è ben poco di titanico. Sia tu che io siamo donne ferite che cercano di vivere al meglio questa dura realtà.
Continui a non guardare verso di me. I tuoi occhi sono fissi su un punto davanti a te, ma non stai guardando neppure chi ti è innanzi, stai guardando nel vuoto dei pensieri che vagano alla ricerca di un perché che non conosci.
Le lacrime sono arrivate fino agli angoli dei tuoi occhi, le vedo luccicare, ma le ricacci indietro e sforzandoti di sorridere rispondi che non è vero ciò di cui ti accusano, che tu lavori e che non ti lamenti. Cerchi di affermare quelle che reputi essere le tue ragioni ma non hai la forza di importi e così ti afflosci sulla sedia sconsolata lanciando un sorriso simile a un ghigno.
Vorrei abbracciarti ma non credo di poterlo fare. Nessuno mi ha mai insegnato cosa fare e così mi arrangio con personali supposizioni, certamente sbagliando, ma convinta di far bene.
È vero, qualche volta anche io perdo la pazienza ma poi mi pento e una profonda pena mi stringe il cuore. Ma perché non mandano a scuola anche noi genitori per spiegarci come fare con voi figli dolenti.
Adesso ti hanno chiesto perché sei triste quando lavori e tu taci per un lungo momento. Ingoi le lacrime che nuovamente sono venute a fare capolino nei tuoi occhi, ti guardi le mani in grembo e con l’espressione sofferta fai tremare il labbro. Poi stancamente ripeti le tue scarne giustificazioni cerchi di dare corpo al tuo pensiero sfuggente ma sai della tua debolezza e quindi fai scivolare la voce nel silenzio.
Certo che non puoi spiegare le tue sofferenze, non le conosci a fondo neppure tu, ma io lo so che ti stanno chiedendo di dire delle cose che non ti riesce di esprimere, ma lo fanno per il tuo bene. So che vogliono da te il sorriso che un tempo illuminava il tuo volto, so che vorrebbero saperti serena, ma so anche che tu non lo sei.
Il tuo amore per quel ragazzo ti tormenta per la confusione dei sentimenti che la tua emotività genera inesorabile.
Io lo so che a nessuno di noi “normali” sarebbe mai chiesto di sorridere solo per illuminare l’ambiente nel quale si trova ma a te sì perché in un sorriso si vuole leggere il ritorno di una immagine di serenità che è fuggita via.
Ma ecco che finalmente hai trovato la forza di dire qualcosa, di svelare un piccolo segreto che ti ha ferito.
Per me è come ricevere uno schiaffo. Non mi hai parlato di questo accadimento, mi hai volontariamente escluso dalla tua vita, dalla tua sofferenza. Non hai chiesto il mio aiuto, non hai cercato da me un consiglio, non mi hai voluto partecipe della tua angoscia.
Come madre ho fallito.
La sofferenza che questa presa di coscienza mi provoca non ha confini. Adesso sono io che mi guardo le mani in grembo, che sento le lacrime riempirmi gli occhi, che vorrei tu mi abbracciassi per dirmi “Mamma ti voglio bene” e mi consolassi per questo dolore.
Invece seduta su questa sedia scomoda sono sola. E tu qui vicina a me sei sola.
Forse basterebbe che ci dessimo la mano.